LA PEDINA DEI DIRITTI LGBT+ NELLA POLITICA INTERNAZIONALE
di Simone Astarita
Nel settembre 2017, alle Nazioni Unite, gli Stati Uniti si sono opposti alla messa al bando della pena di morte come condanna per l’omosessualità. Con una mossa a sorpresa, invece, lo scorso 19 febbraio Richard Grenell, l’ambasciatore americano in Germania e la più importante figura dichiaratamente gay nell’amministrazione Trump, ha annunciato una campagna globale per la decriminalizzazione dell’omosessualità.
C’è un po’ di confusione nell’aria. Il giorno dopo l’annuncio, Trump ha affermato di non saperne nulla. Jeremy Kadden, a capo della promozione internazionale dei diritti umani nella Human Rights Campaign, la più grande organizzazione LGBT+ statunitense, ha risposto «We have no idea» alle domande dei giornalisti: il governo non lo aveva contattato. Kadden ha poi aggiunto che anche tutti i loro colleghi europei non sanno cosa stia succedendo. In questo marasma, il vicepresidente Mike Pence si è detto a favore della manovra. Che strano: in aggiunta al suo sostegno alle terapie di conversione, nel 2009 si è opposto alla diffusione di tali diritti all’estero, come ha fatto anche Mick Mulvaney, il capo del gabinetto della Casa Bianca. Nelle dichiarazioni ufficiali alla stampa l’operazione di Grenell viene però dipinta come coerente con il comportamento del governo. Anche a voler ignorare il voto alle Nazioni Unite, è stato dimostrato ben altro. Il lavoro iniziato da Randy Berry, assunto da Obama per organizzare la lotta internazionale per la comunità LGBT+, è stato interrotto. Sono stati fatti diversi tentativi per tagliare i fondi nella ricerca contro l’Aids e per impedire alle persone transgender di servire nell’esercito. Sono state approvate leggi che autorizzano la discriminazione verso dipendenti e clienti in base all’orientamento sessuale e all’identità di genere. Le parole di Grenell contrastano con i fatti e negarlo sarebbe un atto di revisionismo politico estremo.
Siamo davanti a un inaspettato pinkwashing? Non proprio. Il fenomeno ricorda di più l’omonazionalismo, ossia un nazionalismo giustificato dalla – presunta o reale – omolesbobitransfobia delle persone straniere. Questa ideologia ha raggiunto un certo successo in Europa: da Alice Weidel ad Anne Marie Waters, politiche lesbiche di estrema destra, fino a Tommy Robison, leader dell’Ukip che ha dichiarato di voler «fight for a gay man’s rights». Considerando come Grenell nel giugno 2018 ha detto di voler rafforzare i partiti conservatori europei – andando oltre i suoi poteri di ambasciatore – gli Stati Uniti potrebbero star facendo leva su questi ideali. Il governo Trump tenta da sempre di spostare gli alleati europei contro l’Iran e di far annullare l’accordo sul nucleare. La dichiarazione di Grenell è, infatti, avvenuta poco dopo che un trentunenne iraniano è stato giustiziato per omosessualità (anche se i fatti non sono chiari). Non è certo la prima volta che capita: dalla rivoluzione islamica del 1979, migliaia di persone sono state uccise per simili motivi. Appena pochi giorni fa, il 4 marzo, un’attivista è stata dichiarata una minaccia per la sicurezza nazionale a causa delle sue lotte per le persone LGBT+. Il regime iraniano, oltre alla pena di morte, ha tra le misure più repressive al mondo. Un intervento diretto sarebbe pericoloso e da benefattori a imperialisti il passo sarebbe breve. Non è poi chiaro il ruolo dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti, importanti alleati statunitensi con leggi simili a quelle iraniane e che il governo Trump tiene stretti.
È più realistico che sia una mossa volta a spostare l’Ue contro l’Iran. Se così fosse, un tale sfruttamento diplomatico dei diritti LGBT+ sarebbe riprovevole, soprattutto da parte di chi li ostacola. Questo non vuol dire giustificare l’orrendo regime iraniano, anzi, è fondamentale capire come intervenire e che ruolo deve avere l’Europa: la situazione non si sta risolvendo da sola. Non dobbiamo certo stare a sentire Grenell per farlo.
pubblicato sul numero 44 della Falla, aprile 2019
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