di Vincenzo Branà

Il 26 gennaio il Senato, per la prima volta nella nostra storia repubblicana, discuterà una legge per il riconoscimento delle coppie formate da persone dello stesso sesso. La notizia è nota e perfino molto attesa.

Non tutti tra noi l’aspettano però con lo stesso entusiasmo: per qualcuno il mancato traguardo del matrimonio ugualitario uccide ogni ipotesi di festeggiamento, per altri l’idea di svegliarsi un giorno con alcuni diritti riconosciuti è già di per sé qualcosa per cui brindare. Resta il fatto che il 26 gennaio il nostro Parlamento affronterà un tema – quello delle coppie same-sex – che non è mai riuscito ad affrontare ma che da sempre resta marginalizzato nei salotti mediatici, ridotto a una sorta di fatto di costume.

Ci sarebbe perciò molto da dire su questo prolungato esilio, un embargo che ha precise ragioni e che, al di là degli esiti del voto, dice già molto sul nostro Paese e sulle peculiarità della sua vita politica. E molto ci sarebbe da dire anche sull’uguaglianza, o meglio sulla diseguaglianza, uno dei fenomeni più ordinari del nostro paese, rispetto al quale siamo così assuefatti da ridurre al minimo il fastidio. E ci sarebbe da rimarcare anche la differenza tra la battaglia per l’uguaglianza e quella per la “mia” uguaglianza, che è un paradosso in termini ma anche la sintesi ottimale della confusione tra diritti e privilegi, che crea una diffusa brama a entrare a far parte – prima o poi – del cerchio dei privilegiati, con buona pace di chi resta fuori.

Infine qualcosina bisognerebbe dirla pure sull’articolo 29 della nostra Costituzione, quello che definisce la famiglia come una società naturale fondata sul matrimonio: da sempre ci dà sollievo il fatto che non sia scritto “tra un uomo e una donna”, quasi mai al contrario ci concediamo il lusso di discutere che il matrimonio sia il prerequisito di qualcosa. Perché se il matrimonio è un diritto, non è di certo un obbligo e in tempi di rinverdimento della retorica familista questo distinguo rischia di cadere nel dimenticatoio. Insomma: l’appuntamento del 26 gennaio merita tutta la nostra attenzione, quale che sia la posizione dalla quale guardiamo a questo dibattito. La merita innanzitutto perché è una data storica, per cui molti e molte prima di noi hanno lottato. E la merita anche perché è la prima tappa di un percorso più importante, in cui le tappe successive sono ancora tutte da scrivere. La nostra rivoluzione passa anche da qui.

pubblicato sul numero 11 della Falla – gennaio 2016