A vent’anni dal primo incontro dei collettivi di sex worker organizzato da Pia Covre e Carla Corso, lo scorso 2 giugno si è svolto a Bologna Sex Workers – Speak Out il primo congresso nazionale sul sex work, che tra le partecipanti vedeva presenti realtà come il Comitato per i diritti civili delle prostitute, SWIR, Kinky Girls, SWIPE, MIT, Ombre Rosse, ZoccoleDure e singole personalità da anni attive nella sensibilizzazione e nell’informazione al tema, come Valentine aka Fluida Wolf

La restituzione pubblica è avvenuta sabato 3 nell’auditorium Enzo Biagi della biblioteca comunale Salaborsa, ed è stata aperta da Porpora Marcasciano, storica attivista trans ed ex sex worker, oggi consigliera comunale. 


Il congresso si impernea su un assunto fondamentale: la puttanofobia, stigma sulle prostitute e sulle sessualità libere dagli strascichi cattolici e perbenisti, è sistemica. Questo si traduce, ad esempio, nell’eccezionalità che gli stati e le legislazioni riservano al lavoro sessuale. Degli altri lavori non vengono messi in discussione la volontà e il piacere di chi lavora nel praticarli, o l’immoralità e l’esposizione alla violenza, o persino la necessità della retribuzione. Il sex work, invece, deve passare molteplici stereotipi e vagli normativi: dai più stringenti – modello proibizionista e regolamentarista, che disconoscono il lavoro sessuale in quanto lavoro e lo vietano – ai più ampi, come la legalizzazione, che tutela e riconosce il sex work come lavoro, ma non ne specifica le condizion, e la decriminalizzazione che equipara il lavoro sessuale agli altri lavori. È questo il modello per il quale si batte unanimemente l’assemblea del 3 giugno. La situazione italiana infatti oscilla tra l’aspirazione al cosiddetto “modello nordico” (neo proibizionista, che tende a punire la domanda) e l’attuale modello abolizionista retto dalla legge Merlin del 1958, che, vedendo il sex work come abuso, predispone la chiusura delle case di tolleranza (o case chiuse) e introduce i reati di favoreggiamento, sfruttamento e induzione alla prostituzione.

Allo stato dell’arte, dunque, il lavoro sessuale non è reato, ma le accuse di favoreggiamento e/o sfruttamento ne rendono effettivamente molto difficile l’accesso, nonché le condizioni di vita per chi lo pratica. In primo luogo, infatti, ampliano la sfera di sommerso sia di coloro che non praticano il sex work per scelta, spesso donne e migranti senza documenti, sia di chi si autodetermina in quanto sex worker: vietando l’esercizio in casa, si consegnano infatti le lavoratrici «in mano ai palazzinari», afferma Covre.
In secondo luogo, espone le lavoratrici alla possibile oscillazione del diritto e del potere esecutivo. Più volte infatti, nei racconti della giornata di Loredana, di Associazione Trans Napoli, e Regina, entrambe persone trans ed ex sex worker, si è manifestata la complicità delle forze dell’ordine alla violenza subita dalle lavoratrici sessuali: o con la mancanza di interesse di queste alla morte di molte donne trans, o addirittura ostacolandone l’attività, bucando loro i preservativi o applicando un daspo, con il pretesto di «offesa al pudore»;  anche se queste stavano prendendo il caffè in stazione.
Infine, è sempre la legge a rendere impossibile l’aggregazione delle lavoratrici.

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Stringere rapporti tra sex worker e trovare casa, al di là della crisi abitativa delle città italiane, è praticamente impossibile: «Finiremo a mettere le tende in piazza come gli studenti», afferma Pia Covre.
«Devo pagare le tasse» afferma sempre Covre «ma non posso godere degli stessi diritti delle altre lavoratrici».

Se a fare sex work è anche una persona trans e/o migrante, ecco che il conto dei diritti diminuisce ulteriormente.

Nella seconda parte della giornata l’argomento si è spostato alle nuove forme di lavoro sessuale. In periodo pandemico, infatti, parte del lavoro sessuale è migrato online, sulle piattaforme digitali – Onlyfans tra le più famose.
Parla un membro della Brigada Callejera: «In una società puttanofobica, le stesse sex worker hanno interiorizzato lo stigma della puttana. Si viene a creare così una mignottocrazia, in cui la visibilità del sex work è determinata dal minore contatto fisico che hai: se fai cam, chat o vendi le foto, hai sicuramente uno status più privilegiato rispetto a una sex worker che riceve in casa e spesso non ti vuoi nemmeno definire lavoratrice sessuale». 
L’ultima parte degli interventi della giornata ha tracciato le possibili alleanze con altre soggettività, in particolare quella migrante, per la quale ha parlato Wissal Houbabi (Coordinamento Antirazzista Italiano) e queer, rappresentata da Renato Busarello di Smaschieramenti: «non mi metto sul piano di una sex worker, ma penso che in quanto lavoratrici viventi sotto il patriarcato dovremmo pensare al lavoro sessuale come un continuum, in quanto il nostro genere viene continuamente estorto dal capitalismo e reindirizzato all’insegna della differenza sessuale».

Immagine in evidenza: rivoluzioneanarchica.it