IL MARKETING GAY TURISTICO E POLITICO DI ISRAELE E GRECIA

Il 2021 è iniziato con due esempi eclatanti di rainbow washing (lo sfruttamento delle tematiche LGBTQIAP+ da parte di aziende private, enti e istituzioni pubbliche per apparire friendly e progressisti) del governo israeliano e di quello greco, sostenuti e rilanciati da media italiani e internazionali.

Lunedì 4 gennaio un sito di informazione LGBTQIAP+ italiano ha pubblicato una guida turistica in cui Israele viene definito, a partire dal titolo, un «paradiso del benessere e dei sapori», oltre che «la nazione più friendly del Medio Oriente». Che Israele cavalchi il rainbow washing in chiave turistica per ripulire la propria immagine, tentando così di far dimenticare i casi di omofobia in aumento, legati in gran parte alla comunità ultraortodossa, la brutale occupazione militare di Cisgiordania e Striscia di Gaza e le leggi razziste rispetto al popolo palestinese, non è certo una novità di cui stupirsi. Brand Israel è una campagna creata dal governo israeliano nel 2005, ne abbiamo scritto sulla Falla in occasione della campagna di boicottaggio dell’Eurovision Song Contest che si è svolto nel 2019 a Tel Aviv, in concomitanza con il Pride. 

In questo caso recente, però, il marketing arcobaleno si intreccia con il tema della vaccinazione contro il Covid-19. Nel lungo articolo promozionale, realizzato in collaborazione con l’Ente per il Turismo israeliano, si legge infatti che Israele sarebbe «una delle mete più sicure sul rischio Covid: al 4 gennaio 2021 circa il 12% della popolazione israeliana è già stata vaccinata, a questi ritmi basterebbero circa 2 mesi per vaccinare tutti i 10 milioni di abitanti; perciò già nei primi mesi del 2021 Israele potrebbe riaprirsi al turismo».

Peccato che, proprio il giorno prima, domenica 3 gennaio, il quotidiano britannico The Guardian avesse rivelato l’esclusione dalla campagna vaccinale israeliana di milioni di palestinesi che vivono nei territori occupati in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Le dosi del vaccino Pfizer-BioNTech, comprate da Israele per 62 dollari l’una, contro i 19,50 pagati dagli Stati Uniti, vengono infatti distribuite solo ai coloni ebrei e non a circa 2,7 milioni di palestinesi che potrebbero dover aspettare settimane o mesi per l’avvio delle vaccinazioni. L’Autorità palestinese spera di ottenere gran parte del proprio fabbisogno di vaccini da Covax, programma vaccinale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità rivolto ai paesi economicamente più svantaggiati, ma, proprio secondo funzionari dell’Oms, questi vaccini non arriveranno prima di marzo. 

Come hanno ricordato sia l’ONU sia le associazioni per i diritti umani, stando alla Convenzione di Ginevra, Israele, in quanto forza di occupazione, avrebbe l’obbligo di fornire assistenza sanitaria alle popolazioni dei territori occupati ma il governo Netanyahu si è rifiutato, appellandosi ai controversi accordi di Oslo, stipulati il 20 agosto 1993, che attribuiscono la responsabilità dell’assistenza sanitaria e delle campagne vaccinali all’Autorità palestinese. In realtà quegli accordi di pace, nati per definire i rapporti tra israeliani e palestinesi e porre fine al loro conflitto, avrebbero dovuto essere soltanto temporanei e non sono mai entrati pienamente in vigore, oltre a prevedere assistenza reciproca tra le parti in caso di emergenza. Il piano vaccinale di Israele è profondamente disumano e conferma le politiche di apartheid nei confronti de* cittadin* palestinesi, oltre a essere antiscientifico. Non vaccinare la popolazione palestinese dei territori occupati potrebbe rappresentare un ostacolo al raggiungimento dell’immunità di gregge, soprattutto visto che migliaia di palestinesi lavorano in Israele e negli insediamenti. Solo in seguito alla pressione e al biasimo internazionale proveniente anche dallo storico alleato statunitense, Israele ha comunicato che invierà 5mila dosi di vaccino destinate a* operator* sanitar* palestinesi direttamente coinvolt* nella gestione della pandemia. Nonostante la campagna vaccinale prosegua a ritmo sostenuto tra la cittadinanza israeliana, l’epidemia di Covid-19 continua a galoppare (più di cinquemila casi al giorno su una popolazione di nove milioni di abitanti) e pertanto il lockdown nazionale di Israele è stato prorogato fino al 7 febbraio.

Anche alla luce di queste notizie, che smentiscono nei fatti la propaganda veicolata dall’Ente per il Turismo, Israele può definirsi un «paradiso del benessere» forse giusto per i maschi gay ashkenaziti e i turisti bianchi benestanti (le immagini pubblicitarie ritraggono solo modelli maschili dai fisici scultorei) a cui si rivolge questa bieca operazione di rainbow washing. Sicuramente non lo è per le/i palestinesi queer, spesso sottopost*, come ricorda Morning Star Online, a pesanti ricatti da parte delle Forze di Difesa israeliane, che monitorano attività online e telefonate per identificare nuov* potenziali informator*, minacciandol* di outing con le loro famiglie e amici, qualora si rifiutassero di collaborare.

Sempre lunedì 4 gennaio, il 44enne Nicholas Yatromanolakis è stato nominato Vice Ministro della Cultura del governo greco, diventando così il primo uomo apertamente gay a ricoprire un simile incarico politico nella storia della Repubblica ellenica. La notizia ha fatto velocemente il giro dei principali siti di informazione internazionali ma in pochi sembrano aver colto gli aspetti contraddittori e problematici dietro questa nomina. Laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali presso l’Università Panteion di Atene e con un master in Politiche Pubbliche presso la John F. Kennedy School di Harvard, Yatromanolakis si definisce attivista per i diritti umani, con particolare attenzione a quelli LGBTQIAP+, ha svolto volontariato presso organizzazioni nonprofit, occupandosi soprattutto dell’inclusione sociale delle popolazioni vulnerabili, oltre che della salute mentale e fisica delle/i bambin*. Sulla carta il suo sembrerebbe un profilo di tutto rispetto, peccato faccia parte di un governo ultraconservatore, guidato dal primo ministro Kyriakos Mītsotakīs, leader della formazione di centrodestra Nea Demokratia (Nuova Democrazia). Yatromanolakis, che di marketing se ne intende, avendo curato la comunicazione di fondazioni culturali, aziende e multinazionali tra cui Microsoft, dopo aver militato nel partito di centro liberaldemocratico To Potami, di cui è stato cofondatore, è entrato a far parte del governo nell’agosto 2020, in qualità di Segretario Generale della Cultura Contemporanea, e ora, dopo un rimpasto, Vice Ministro, per l’appunto.

Come riesca a conciliare il proprio orientamento sessuale e l’essere attivista per i diritti umani con il far parte di un governo che calpesta sistematicamente i diritti dei migranti e criminalizza le ONG, vuole privatizzare la sanità pubblica, per di più nel pieno di una pandemia (sanità per altro già duramente colpita dalla folle austerity imposta pochi anni fa dalla Troika), favorisce le trivellazioni per l’estrazione del petrolio da parte dell’industria dei combustibili fossili, ha un Ministro dell’Interno di estrema destra e ultranazionalista, Makis Voridis, accusato di antisemitismo e contrario alle unioni civili, una viceministra dell’Immigrazione con delega all’Integrazione dei Rifugiati, Sofia Voultepsi, nota per aver definito i migranti «invasori disarmati», è solo affar suo e della sua coscienza. A lasciare basit* è soprattutto la superficialità con cui la notizia della sua nomina è stata data, salvo rarissime eccezioni, limitandosi a celebrare il primato del gay che ricopre un incarico governativo di rilievo (in alcuni casi erroneamente confuso con la carica di Ministro), esattamente ciò che immaginiamo volesse ottenere il premier greco. Sarebbe stato sufficiente un semplice lavoro di ricerca e fact checking per frenare tutto l’entusiasmo, francamente immotivato, verso un uomo gay, che seppure di bell’aspetto, di mestiere fa il politico e quindi dovrebbe essere giudicato solo in virtù della proprie scelte e azioni in quell’ambito, anziché essere trattato come un attore, cantante o modello, con tanto di photo gallery pubblicate con immagini prese dal suo profilo Instagram.

Rivestire il ruolo del grillo parlante guastafeste non sempre è piacevole ma, in quanto attivist* che credono nell’intersezionalità delle lotte e fanno informazione, spetta a noi smascherare puntualmente le trappole del rainbow washing, mantenendo sempre alto quello spirito critico necessario per evitare facili e odiose strumentalizzazioni.

Immagine in evidenza da lgbts.yale.edu, nel testo da invictapalestina.org, da queersagainstapartheid.org e da instinctmagazine.com