PERCHÈ I CATTIVI DELLA DISNEY SEMBRANO TUTTI QUEER?

di Ethel Gallo

Che cosa hanno in comune Jafar, Scar e Ade? Non sono solo tre dei cattivi più celebri dei film d’animazione Disney, sono anche rappresentati in modo simile.

Eyeliner sulle palpebre, movenze femminili e voce acuta: la maggior parte dei villains della Disney – e di molti altri film o serie tv – ha almeno una di queste caratteristiche. È un luogo comune radicato nei prodotti mediatici e quindi nell’immaginario collettivo: quasi tutti i villains hanno un elemento che li ricollega, spesso per stereotipia, all’immaginario queer.

Il queercoding, la rappresentazione di un personaggio come implicitamente queer, è un fenomeno longevo. Tra gli anni ‘50 e gli anni ‘60, i media statunitensi pullulavano di organismi di censura come la Comics Code Authority per i fumetti e la Motion Picture Producers and Distributors of America per i film. Rappresentare esplicitamente un personaggio LGBT+ era strettamente vietato, quindi si poteva parlarne in due modi: proporli come esempi negativi e condannarli a un finale triste, oppure velare la loro identità, in modo da non venire censurati.

Questo secondo tipo di rappresentazione comincia a essere associata alla sfera di valori del mondo dei cattivi solo dopo gli anni ‘60, quando nasce una nuova categoria di antagonisti: i sissy villains, i cattivi effeminati. Sono personaggi leziosi e melliflui, contrapposti all’eroe che incarna i valori positivi della mascolinità e della virilità. Il queercoding delle cattive diventa una demonizzazione della sessualità, con antagoniste ipersessuate che incarnano un’idea di femminilità come forza corruttrice, per esempio in Maleficent. È la componente femminile che rappresenta il male, non importa il genere del personaggio a cui viene associata.

Nonostante le radici lontane del queercoding e il cambiamento enorme nella rappresentazione delle persone LGBT+, . Nel 2010, la serie tv Sherlock introduce il personaggio di Moriarty come lo stereotipo dell’uomo gay effeminato, ridicolizzando i suoi comportamenti più volte. Nel 2017, il live action della Bella e la Bestia fornisce all’universo Disney il primo personaggio gay dichiarato: LeTont, che tra i due cattivi è il meno credibile e funziona da comic relief della situazione. Nel 2018, il franchise di Star Wars raccoglie le allusioni della trilogia degli anni Ottanta e conferma (solo in un’intervista) la pansessualità di Lando Calrissian.

Questa visione stereotipata delle persone LGBT+ viene associata a una sfera di valori negativi, propri dei villains che li incarnano. Il queercoding diventa veicolo di una visione diffusa che presume che le persone queer siano il cattivo della situazione, l’esempio da non seguire, e/o il personaggio che viene eventualmente sconfitto dall’eroe che in genere rispecchia tutti i canoni della società eternormativa.

Ci sono personaggi per cui questo processo non ha funzionato. Il primo e più famoso esempio è quello di Xena, rivendicata come più o meno esplicitamente lesbica. Un processo simile è rilevabile nel modo in cui è scritto l’amato Dr. Frank-N-Furter di Rocky Horror Picture Show: esagerando al massimo lo stereotipo del sissy villain si è dato vita al personaggio più rappresentativo del film, la cui immagine ha attraversato i decenni diventando iconica. È in atto da tempo una vera e propria riappropriazione del queercoding, man mano che la comunità LGBT+ si sceglie le proprie icone anche tra i cattivi: forse non basta a tagliare il legame tra immaginario queer e villains, ma rimane una forma di resistenza da non sottovalutare.

Pubblicato sul numero 51 della Falla, gennaio 2020

Immagini da youtube.com, leganerd.com