IL RAINBOW WASHING TRA ALLEANZA E APPROPRIAZIONE

Ogni anno nel mese di giugno, le strade si popolano di arcobaleni e non solo per la sempre più vigorosa onda Pride, ora temporaneamente mutata. 

È anche merito del florido merchandising: da anni siamo immersi nel rainbow washing, letteralmente una pennellata arcobaleno che le aziende impiegano per trasmettere atteggiamenti di apertura verso i diritti LGBT+ e catturare l’attenzione dei consumatori. 

Una strategia che affonda le sue radici negli anni ’90, con il fiocchetto posto accanto ai marchi che sostenevano le persone malate di cancro al seno (pinkwashing) e si rafforza passando per la promozione di emancipazione femminile e sensibilità ambientale in contesti con senso civico e rispetto delle minoranze relativamente sviluppati.

Nel corso dei decenni le persone LGBT+ hanno sviluppato più potere d’acquisto, diventando una nicchia di mercato formidabile (dink, double income, no kids) anche per operatori, di fatto, omolesbobitransfobici.

Un curioso, lento motore di legittimazione finanche politica, che trascina una visibilità non trascurabile, ma incorpora i temi LGBT+ nel capitalismo, trasformando il mercato in uno spazio di omosocializzazione. La diversità sessuale si assimila allora a comportamenti socialmente accettati sotto l’ombrello di modelli di consumo e canoni estetici omogenei.

Abbracciare acriticamente l’agenda della società patriarcale taglia fuori quelle frange della collettività che non possono o non vogliono incarnare il ruolo dei bravi cittadini. Nel tempo, però, il gioco si è fatto più semplice e il capitalismo rosa è sempre più abile nel lanciare messaggi LGBT friendly e di empowerment femminile con campagne di marketing inclusive.

Nel 2013, Guido Barilla invita i gay a mangiare la pasta della concorrenza qualora trovino sconveniente la sua rappresentazione tradizionale di famiglia, dovendo poi aprire l’ombrello per la tempesta di merda. Il mercato, negli anni, si è messo in ascolto delle minoranze. 

La strategia di comunicazione di Gillette è da sempre imperniata sulla virilità, ma l’anno scorso ha deciso di trasmettere negli Stati Uniti uno spot centrato sull’educazione contro la violenza e la sua normalizzazione;  la reazione sul web è stata perlopiù negativa, un trionfo di maschilismo e sarcasmo verso gay e soy-boy: i cliché non si abbattono in una manciata di secondi. 

Qualche mese dopo è tornata alla carica con una soggettività tra le più assenti sullo schermo, mostrando la prima rasatura di un ragazzo trans canadese che sorride: «it is about being confident».

I marchi che oggi si fanno avanti per sponsorizzare i Pride non sono più piccole realtà illuminate. Google, Amazon, Netflix, Deliveroo, mettono il cappello sulle nostre rivendicazioni scegliendo messaggi non controversi, come l’universalità dell’amore. D’altro canto, costruire uno spazio politico e sociale, nonostante il generoso sacrificio quotidiano delle volontarie, richiede risorse per dare professionalità a un attivismo che si scontra con necessità logistiche, tutela legale e molto altro. Gli alleati possono essere utili anche a coinvolgere un pubblico più ampio e meno sensibile, ma i buoni amici sanno essere discreti e rispettosi, non comprano la piazza o ristrutturano la propria immagine staccando un assegno.

I grandi profitti si fanno spesso con la precarietà, fiaccando le tutele e mantenendo buoni rapporti (economici) anche con chi fa la guerra all’uguaglianza. Bank of America, in prima fila alle parate statunitensi, è stata portata in tribunale da clienti e impiegati per discriminazioni di orientamento e genere. 

Le più anziane ricorderanno lo spot Coca Cola degli anni ’70, dove un gruppo di hippie intonano un canto di pace e armonia. Peccato per i soldi al comitato Trump-Pence e il pavido posizionamento nei paesi dove le soggettività LGBT+ sono oppresse (nel 2014 il marchio era onnipresente alle Olimpiadi invernali in Russia).  Non c’è niente di male a cercare di vendere a un particolare pubblico, altra cosa è finanziare con i nostri portafogli l’odio e la compressione delle libertà.

C’è poi il perimetro dei diritti, che non può limitarsi a quello di una singola comunità. A Coca Cola è costata 192 milioni di dollari la class-action per discriminazioni salariali e di carriera intentata da migliaia di dipendenti afroamericani (ha patteggiato negando l’accusa di aver creato un soffitto di cristallo, ma la cifra rende l’idea), mentre è stata accusata di aver risolto la tensione con i lavoratori colombiani grazie all’aiuto di gruppi paramilitari locali.

Il mercato digerisce le contraddizioni a modo suo. A noi tocca costruire un vocabolario condiviso, tenendo a mente che le lotte sono intersezionali o semplicemente non sono.

Pubblicato sul numero 56 della Falla, giugno 2020

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