Agli Eurogames di Roma Alexander “Foster” Carollo si racconta a La Falla: «Genitore volevo diventarlo»

di Irene Moretti

Ci sono due o tre cose che colpiscono subito di Alexander “Foster” Carollo, ambasciatore agli Eurogames Roma 2019: la sua altezza, la sua somiglianza con Barack Obama e i suoi figli che lo chiamano «mamma». Per chi non ha familiarità con il mondo delle persone trans può essere spiazzante: un uomo gioca a basket con i propri figli e si sente chiamarlo mamma. 

Alexander è stato adottato quando aveva un anno e mezzo. Con quello che lui definisce un atto d’amore i suoi genitori adottivi hanno voluto lasciargli il nome che la madre biologica aveva scelto: Samantha. Alex ha un sogno: poter aggiungere anche il cognome della madre biologica, giamaicana. Foster appunto. E lo farà. Nato all’ospedale San Giovanni, ha intrapreso con l’ex marito un percorso neocatecumenale prima e durante il matrimonio. Due figli e tanto amore per lo sport.

Alexander, cosa può raccontarci della sua infanzia?

Mio padre non è noto: non c’è nell’atto di nascita. Ma mia madre mi ha riconosciuto e sono stato adottato a un anno e mezzo da una madre calabrese e un padre siciliano. Quando le cose si facevano piccanti, uscivo di casa. Mi hanno scelto, in orfanotrofio, mentre ero seduto sul vasino. Mi hanno voluto e mi hanno scelto. Per questo ho sempre avuto l’idea di dover ridare qualcosa. Ho avuto tanto.

Quando hai capito che Alexander doveva venire alla luce?

Già da quando avevo cinque anni ho capito che c’era qualcosa che non andava. Avrei dovuto percepirmi in un certo modo, invece già mi vedevo per quello che sono ora. La disforia è stata tenuta a bada per tanto, ma avevo già la certezza. Mi sentivo maschio, ma avevo il ciclo: è una cosa molto comune. Crescendo c’è stato il tentativo di rientrare nel ruolo di genere e l’ho vissuto tutto. Mi sono sposato, cattolico, ho avuto due figli. La famiglia mi spingeva, ma non perché mi dovessi sposare per forza. Però c’erano delle aspettative. 

E poi?

Ho portato tutto all’estremo, questo è il cuore di tutto. Ci ho provato in tutti i modi. Non ho fatto solo un figlio, ho fatto anche il secondo. Ed è stata una grande ricchezza, è stata la prova del nove. Mentre li allattavo – ho condiviso questa gioia con altre madri – mi dicevo che questo non mi apparteneva. Loro però, e i miei genitori, mi hanno aperto alla genitorialità: vengo da una storia di adozione, era il mio pane quotidiano. Non mi avete generato biologicamente, mi avete generato col cuore. 

Come è arrivato il coming out?

Nel corso del tempo ho avuto tanta paura di fare coming out. Ho aspettato molto, e ho iniziato nove anni fa. Non ho trovato una parola che mi definisse finché, a Largo Argentina non ho trovato il libro di una grande giornalista: Delia Vaccarello. Si chiama Evviva la neve. Mi piaceva il titolo, l’ho preso e ho dato un nome a quello che avevo sempre sentito dentro di me rispetto alla mia vita. Mi ha dato grande ispirazione. L’altro è stato il libro di Vladimir Luxuria. Ho iniziato il mio percorso facendo la prima chiamata al numero verde notturno di Torre del Lago: sono romano, ho partorito due figli in città e chiamare il San Camillo non era cosa. Mi hanno invitato due giorni dopo alla presentazione del libro di Vladi e a una full immersion nel mondo LGBT+ e soprattutto nel mondo trans. C’era anche il Mit. Da che non sapevo nulla ho fatto un corso accelerato!

Come è andata con i tuoi due figli?

Ci ho messo quasi otto mesi per decidere quando glielo avrei detto. Nel frattempo, però, ho iniziato a costruire un rapporto con il mio ex marito, il padre dei miei figli. Non l’ho mai preso in giro, fin da quando eravamo fidanzati dicevo che secondo me stavamo facendo una cazzata. Le risposte sono state le classiche, quelle che cercano di smontare: passerà, è solo una fase. Mettici poi i catechisti, il ruolo di genere e i figli… quando ho deciso è stato come un altro parto: dovevo partorire me stesso ai miei figli. Stavo gestandomi e dovevo uscire. La psicologa che mi ha seguito è stata bravissima. Mi ha detto di immaginare di farlo, seminando tante briciole d’amore, tanti piccoli segnali che l’avrebbero reso ai bambini come una cosa naturale. Quando glielo manifesterai con le parole, diceva, sarà facile.

E lo è stato? Facile, intendo.

Al coming out ho invitato il padre. Mi interessava che loro vedessero una coppia genitoriale forte e che sapessero quello che lui aveva fatto pur da uomo etero e patriarcale. Ma aveva fatto tutto quello che poteva perché mi voleva bene. È stato presente per l’amore che abbiamo per loro ed era importante che loro avessero un ulteriore parametro per capire che mamma e papà avevano fatto bene a separarsi. Il cuore della notizia era passare loro chi sono. Di eventuali interventi ne avremmo parlato poi. Ho detto loro che mi ero sempre sentito così fin da piccolo e che se avessero cominciato a vedermi indossare abiti più maschili… Ho detto che non volevo metterli in difficoltà e che sarei andato loro incontro il più possibile. Il grande, che aveva quattordici anni, mi fa: «Ma’, io ‘sta cosa l’avevo intuita tre anni fa. Facciamo due e mezzo. Non mi crea nessun problema». Il piccolo, che aveva dieci anni, mi ha stupito. È stato ancora più sveglio. Salta sulla sedia e mi fa: «Ma’, questa è una figata!». Me lo ricorderò tutta la vita. Gli ho chiesto se avesse capito bene cosa stessi dicendo e mi ha risposto: «Perché tu così puoi anche capirmi!». A sette anni, prima del coming out, mi aveva chiesto se poteva chiamarmi «mammo». Da allora, soprattutto quando sono teso, mi chiama mammolo. Ho capito quanto fosse avanti. Ma è sempre stata una scelta loro come chiamarmi. Non li ho mai obbligati a chiamarmi un qualcosa di diverso da mamma: ci tengo ed è un punto fermo. Li ho partoriti. È la realtà. Il grande  mi dice sempre: «Ci credo, con quello che ti è costato, ma’».

In Italia c’è attualmente un grosso problema nel reperire le cure ormonali. Lo sta riscontrando anche lei?

L’ho vissuto recentemente e il problema dei farmaci è importante. È continuità clinica. È come se togliessi improvvisamente la cardioaspirina a un paziente cardiopatico. C’è una finestra di tolleranza, poi non si può andare oltre. È importante perché mantiene i livelli non solo del testosterone, ma anche da un punto di vista psicologico e per iniziare o programmare l’intervento. Soprattutto l’isterectomia. Deve esserci un bilanciamento. 

Si può risolvere?

Deve essere risolto! Passa il messaggio che sia solo un problema nostro, ma non lo prendiamo solo noi. Non è un farmaco ghettizzante, ma se non hai la sentenza puoi prenderlo solo all’estero. Ti devi esporre. Costa caro. E soprattutto è rischioso. Se hai una brava endocrinologa come la mia sei seguito in maniera eccellente, lei cerca di modulare. Scordatevi il vecchio fai da te. Lasciate stare. Io voglio arrivare a ottant’anni come uomo trans e soprattutto sano. Controllo i livelli di testosterone come controllo il colesterolo. 

Che rapporto c’è stato tra transizione e fede?

È cambiato un po’. Già di mio avevo smontato tante idee con le quali ero cresciuto. Non mi tornavano un sacco di cose, a prescindere dalla fede. Potevo essere musulmano, ebreo, buddista: non mi tornavano perché se la fede, come la interpreto io e loro sostenevano, ti dà gioia io quella gioia la devo sentire. Se quella gioia non me la dà è solo una stampella. Quindi oggi non uso più il termine Dio, ma Vita, con v maiuscola. Lascio ai miei figli la possibilità di sperimentare, come ho fatto io e uso un termine più ampio: Vita, appunto. Da quando mi sono tirato fuori, da quando mi sono detto la verità, ho iniziato a vivere. Nonostante i sensi di colpa del cattolicesimo. E grazie a un percorso molto profondo con una psicologa con la quale ho ricostruito completamente le mie fondamenta. Ringrazio la vita. La mia canzone preferita è Gracias a la vida. Ma da buon romano, quella cantata da Gabriella Ferri. 

 

foto di Irene Moretti 

[articolo modificato il 14 luglio 2019 alle 19]