La prima cosa che dico con chiarezza se mi si chiede di donne e potere è che il sostantivo maschile, a differenza del verbo ausiliare, identifica il modo patriarcale di sottomettere per sentirsi forti e appagati. Sottomettere chi si ritiene più debole socialmente (fino a qualche tempo fa si teorizzava che le donne lo fossero anche fisicamente), quindi esercitare potere sui vinti, sui sottomessi, sui dipendenti, sui giovani e predare il territorio (natura, animali, suolo) ma anche nazioni, ricchezze e donne dei vinti.

A differenza di società matrifocali dove vige ancora oggi, in quelle sopravvissute, l’economia del dono insieme alla solidarietà tra i generi e le generazioni, al rispetto per l’altro e per la terra, quelle patriarcali si sono caratterizzate da subito per la loro politica di aggressione, come a dimostrare che solo chi rapinava e possedeva era un vero capo e, quindi, si presumeva avesse un fallo invidiabile. Chi era posseduta o posseduto aveva forse una “falla”, per riprendere il nome della rivista che mi ospita. Non so di psicanalisi se non quel poco che qualche lettura mi ha insegnato, ma un meccanismo che ho sperimentato continuamente da parte di deboli che vogliono invece far credere di essere forti è quello della proiezione su altri delle proprie debolezze, nel gioco al massacro a cui la prevaricazione induce.

Un altro gioco è quello di dotarsi di simboli pieni di potere contrapponendoli a quelli svuotati di, la logica delle antinomie che si riconducono a uomo e donna, cioè soggetti costruiti culturalmente, piuttosto che a maschio e femmina, termini che rimandano a una identificazione di sesso. Se vogliamo divertirci a riempire due colonne con aggettivi che il nostro linguaggio assegna a uomini (pieno, cacciatore, razionale) e donne (vuoto, preda, emotivo) o pensare a cosa si contrappone al potere, cioè l’amore che si riconduce a esperienze soprattutto materne, come la cura, non tarderemo a scoprire che l’invidia del fallo in realtà nasconde una ben più profonda invidia dell’utero fecondato.

Questo voglio asserire subito in premessa: il potere patriarcale è un surrogato. Del potere di dare la vita o non darla. L’invidia è per la donna madre, quella che crea e ti ha creato. Per questo bisogna sottometterla, lei e i suoi figli che le dipendono. La terra che fa fruttare il seme va controllata ed è bene impadronirsene e recintarla. Alle dee amiche vanno sostituiti dei capricciosi, fino ad arrivare all’unico Dio, quello che ha il potere su tutto il creato e lo dà a re e imperatori, e anche ai padri. Dunque sono passati millenni e il sistema patriarcale è in crisi. Le ragioni sono ancora tutte da indagare e mi sembrerebbe urgente farlo in questa fase in cui il paradigma novecentesco è ormai svuotato delle sue ideologie e il modello di rapina, fatto proprio da finanza e banche, da multinazionali e dai sempre più ricchi di ogni luogo, mette a rischio la sopravvivenza stessa della vita sul nostro pianeta.

Provare a farlo con le vecchie categorie, senza partire dalla premessa che si deve all’ultimo femminismo del novecento (quello che ha cambiato più di tante lotte e due guerre senza spargere una goccia di sangue) non ci porterebbe lontano. Partire da sé per analizzare la realtà in cui si vive è una semplice scoperta dei gruppi di autocoscienza che hanno permesso alle donne oppresse da uomini, di liberarsene, mettendo al centro il proprio corpo. Il corpo unico e irripetibile, come la propria esperienza di vita e l’intuito che lo comprende nella sua interezza, mentre il ragionamento parte da una mente che si astrae. Che dimentica i limiti del proprio corpo, le sofferenze che si infliggono ad altri, la bellezza che si viola e si distrugge. Quindi una donna che si misura col potere feroce dei maschi dell’Isis o con quello più mascherato dei servi del neoliberismo, come può accedere a processi decisionali? E, se ci riesce mettendo in atto tutte le sue capacità, come può cambiare questa società ingiusta e votata all’autodistruzione?

Metto insieme i due estremi del patriarcato di oggi, quello sanguinario del califfato, che regge il suo potere sulla paura, che decapita, che manda bambine e bambini a distruggere come bombe umane, che rapisce le studentesse e le vende al mercato delle schiave, con quello neoliberista che uccide in modo meno appariscente, per esempio privando di passaporto e affogando nel mare Mediterraneo quelle e quelli che fuggono dalle guerre che ha scatenato, oppure spingendo al suicidio chi ha lasciato senza lavoro e in miseria. Sono facce della stessa medaglia ormai logora che si vuole ancora vendere come buona sul mercato dei falli e dei fallimenti.

Una donna sola può fare ben poco se non assecondare e adattarsi, mettendo magari in atto la seduzione di cui è capace nei confronti del potente e permettendogli di usare il suo corpo e la sua intelligenza per mantenere il suo potere e, in cambio, ricevendone briciole. Una consigliera, o una che va dall’estetista per ricoprire un ruolo utile all’uomo che la coopta, può anche accedere al potere, politico, economico, finanziario oppure sociale o culturale, ma ben difficilmente può pensare di cambiarlo. Intanto raramente ha maturato un’utopia che la rende autonoma e può farle desiderare un mondo più giusto e meno violento, perché se così fosse, non accetterebbe di essere gregaria. Può però mettersi in competizione con gli uomini accettandone il modello di potere e sfidandoli sullo stesso piano: in questo momento storico una Merkel o una Lagarde, come tempo fa una Thatcher, hanno vinto uomini e sono andate al governo. Ségolène Royal ha perso. Vedremo la seconda volta di Hillary Clinton. Mi pare evidente che conducono per gli uomini un gioco duro, ma utile al sistema, ed anche a se stesse.

Kristin Tran

Il problema del governo che le donne si possono porre collettivamente oggi è molto complesso e devo dire che sono state Kristin Tran e Soraya Post, del partito di Iniziativa Femminista svedese, le più convincenti che ho incontrato. Perché partendo dalla loro situazione di emarginazione nella società svedese, ricca di pari opportunità e servizi sociali, hanno dovuto inventarsi un partito che mettesse in cima all’agenda politica i temi a cui tenevano essendo immigrate, l’una nordvietnamita e l’altra rom. Hanno vinto al parlamento europeo con lo slogan “Fuori i razzisti e dentro le femministe”. Governano Stoccolma e una decina di altre città e per un soffio non sono entrate nel Parlamento nazionale. Con loro lavorano nel partito molti uomini, soprattutto giovani, impegnati nei movimenti per i diritti civili, le politiche antidiscriminatorie, per la vita indipendente dei disabili, per tutti i nodi politici sottovalutati dagli altri partiti che a questo punto sono stati costretti ad affrontarli loro malgrado.

Un forte movimento femminista in Spagna, che ha saputo vincere contro Chiesa e Partito Popolare che tentavano di limitare la libertà di aborto, sta aiutando Podemos a vincere le elezioni e a governare il paese, partendo per ora dalle città come Madrid e Barcellona, dove hanno vinto donne leader di movimenti. Syriza in Grecia ha ancora una forte connotazione maschile e il governo Tsipras sta scontando il suo essere monosesso anche rispetto alla contrattazione con i creditori e la troika, al contrastare il potere dell’istituzione rimanendo fedele alle promesse elettorali. Ministre saprebbero far valere le ragioni politiche con più autorevolezza e con un linguaggio nuovo e spiazzante? Un linguaggio che parte dal corpo non è prescrittivo come quello dominante, ma capace di scalzare il dominio con l’emotività, il sogno da far intravedere, la bellezza da rivalutare, la memoria da valorizzare come poesia, musica, teatro riescono a fare disarmando le ragioni del potere autoritario. Invito anche gli uomini a usarlo più spesso.

pubblicato sul numero 7 della Falla – luglio/agosto/settembre 2015