La prima cosa che dico con chiarezza se mi si chiede di donne e potere è che il sostantivo maschile, a differenza del verbo ausiliare, identifica il modo patriarcale di sottomettere per sentirsi forti e appagati. Sottomettere chi si ritiene più debole socialmente (fino a qualche tempo fa si teorizzava che le donne lo fossero anche fisicamente), quindi esercitare potere sui vinti, sui sottomessi, sui dipendenti, sui giovani e predare il territorio (natura, animali, suolo) ma anche nazioni, ricchezze e donne dei vinti.
Un altro gioco è quello di dotarsi di simboli pieni di potere contrapponendoli a quelli svuotati di, la logica delle antinomie che si riconducono a uomo e donna, cioè soggetti costruiti culturalmente, piuttosto che a maschio e femmina, termini che rimandano a una identificazione di sesso. Se vogliamo divertirci a riempire due colonne con aggettivi che il nostro linguaggio assegna a uomini (pieno, cacciatore, razionale) e donne (vuoto, preda, emotivo) o pensare a cosa si contrappone al potere, cioè l’amore che si riconduce a esperienze soprattutto materne, come la cura, non tarderemo a scoprire che l’invidia del fallo in realtà nasconde una ben più profonda invidia dell’utero fecondato.
Provare a farlo con le vecchie categorie, senza partire dalla premessa che si deve all’ultimo femminismo del novecento (quello che ha cambiato più di tante lotte e due guerre senza spargere una goccia di sangue) non ci porterebbe lontano. Partire da sé per analizzare la realtà in cui si vive è una semplice scoperta dei gruppi di autocoscienza che hanno permesso alle donne oppresse da uomini, di liberarsene, mettendo al centro il proprio corpo. Il corpo unico e irripetibile, come la propria esperienza di vita e l’intuito che lo comprende nella sua interezza, mentre il ragionamento parte da una mente che si astrae. Che dimentica i limiti del proprio corpo, le sofferenze che si infliggono ad altri, la bellezza che si viola e si distrugge. Quindi una donna che si misura col potere feroce dei maschi dell’Isis o con quello più mascherato dei servi del neoliberismo, come può accedere a processi decisionali? E, se ci riesce mettendo in atto tutte le sue capacità, come può cambiare questa società ingiusta e votata all’autodistruzione?
Metto insieme i due estremi del patriarcato di oggi, quello sanguinario del califfato, che regge il suo potere sulla paura, che decapita, che manda bambine e bambini a distruggere come bombe umane, che rapisce le studentesse e le vende al mercato delle schiave, con quello neoliberista che uccide in modo meno appariscente, per esempio privando di passaporto e affogando nel mare Mediterraneo quelle e quelli che fuggono dalle guerre che ha scatenato, oppure spingendo al suicidio chi ha lasciato senza lavoro e in miseria. Sono facce della stessa medaglia ormai logora che si vuole ancora vendere come buona sul mercato dei falli e dei fallimenti.


Il problema del governo che le donne si possono porre collettivamente oggi è molto complesso e devo dire che sono state Kristin Tran e Soraya Post, del partito di Iniziativa Femminista svedese, le più convincenti che ho incontrato. Perché partendo dalla loro situazione di emarginazione nella società svedese, ricca di pari opportunità e servizi sociali, hanno dovuto inventarsi un partito che mettesse in cima all’agenda politica i temi a cui tenevano essendo immigrate, l’una nordvietnamita e l’altra rom. Hanno vinto al parlamento europeo con lo slogan “Fuori i razzisti e dentro le femministe”. Governano Stoccolma e una decina di altre città e per un soffio non sono entrate nel Parlamento nazionale. Con loro lavorano nel partito molti uomini, soprattutto giovani, impegnati nei movimenti per i diritti civili, le politiche antidiscriminatorie, per la vita indipendente dei disabili, per tutti i nodi politici sottovalutati dagli altri partiti che a questo punto sono stati costretti ad affrontarli loro malgrado.
Un forte movimento femminista in Spagna, che ha saputo vincere contro Chiesa e Partito Popolare che tentavano di limitare la libertà di aborto, sta aiutando Podemos a vincere le elezioni e a governare il paese, partendo per ora dalle città come Madrid e Barcellona, dove hanno vinto donne leader di movimenti. Syriza in Grecia ha ancora una forte connotazione maschile e il governo Tsipras sta scontando il suo essere monosesso anche rispetto alla contrattazione con i creditori e la troika, al contrastare il potere dell’istituzione rimanendo fedele alle promesse elettorali. Ministre saprebbero far valere le ragioni politiche con più autorevolezza e con un linguaggio nuovo e spiazzante? Un linguaggio che parte dal corpo non è prescrittivo come quello dominante, ma capace di scalzare il dominio con l’emotività, il sogno da far intravedere, la bellezza da rivalutare, la memoria da valorizzare come poesia, musica, teatro riescono a fare disarmando le ragioni del potere autoritario. Invito anche gli uomini a usarlo più spesso.
pubblicato sul numero 7 della Falla – luglio/agosto/settembre 2015
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