Dentro e fuori l’armadio: pratiche per cambiare il mondo

In occasione del National Coming Out Day, Giuseppe Seminario ne ripercorre rapidamente la storia ponendo una domanda fondamentale che riguarda tutte e tutti noi: che valore ha e dovrebbe avere oggi, nel 2018, questa occorrenza?

Sulla Falla è stata inaugurata nel numero di Ottobre una nuova rubrica dedicata proprio al tema del coming out, composta dalle storie personali di chi vuole condividere il più forte gesto di autodeterminazione che ci è concesso operare. La speranza è che tutti quei piccoli, grandi, tasselli possano andare a comporre una strada che porti alla liberazione di tutte noi.

di Giuseppe Seminario

Ha ancora senso fare coming out nel 2018? Questa è la domanda che spesso ci viene posta, come persone che lottano per i diritti LGBT+, da chi non ha mai avuto la necessità di farlo, perché in una condizione di privilegio, perché eterosessuale o perché, banalmente, pensa non sia più necessario visti i traguardi legislativi raggiunti. Ed è una domanda che dovremmo porci tutte e tutti, a trent’anni dal primo National Coming Out Day che Robert Eichberg e Jean O’Leary lanciarono per rivendicare il diritto alla visibilità e a lottare per un mondo più inclusivo. Questa giornata, che simbolicamente cade nell’anniversario della marcia che nel 1987 aveva visto sfilare oltre mezzo milione di gay, lesbiche bisessuali e trans* per le strade di Washington DC, potrebbe sembrare ridondante ai più, ormai inutile per chi vive in nazioni, che sembrano garantire la piena, o quasi, uguaglianza alle persone LGBT+. Ma è realmente così?

Le cronache di questi ultimi giorni ci dicono il contrario, consegnandoci un ritratto della società, nello specifico di quella italiana, che appare distante da quell’ideale sociale immaginato dai due attivisti statunitensi, inclusivo delle differenze e libero da stereotipi e discriminazioni. Le aggressioni di Verona e Pisa ci descrivono, infatti, un contesto molto più complesso, in cui le vite delle persone LGBT+ sono più esposte di altre alla violenza – e di questo ne eravamo ormai consapevoli, anche se, forse, l’avanzata dei diritti ci aveva dato l’illusione che tutto potesse soltanto migliorare -, in cui la visibilità è sì un atto di libertà, ma anche un’arma a doppio taglio che può metterci in pericolo.

Sorge spontaneo chiedersi se abbia ancora senso dichiarare al mondo le nostre relazioni, viverle pienamente rischiando, però, la propria incolumità perché ci sono fascisti pronti a darci fuoco, per di più mentre stiamo dormendo con il nostro compagno, protetti dalle nostre mura domestiche. Se abbia ancora senso esporsi, rischiando di essere pestati mentre camminiamo semplicemente per strada. Se siamo ancora pronte a subire le vessazioni delle nostre famiglie semplicemente perché ci dichiariamo lesbiche, gay, bisex, trans* durante l’adolescenza. Se siamo tuttora in grado di affrontare la solitudine, l’abbandono, il crollo di ciò che abbiamo costruito perché, attorno a noi, chi dovrebbe supportarci, sostenerci in una cosiddetta società civile – dagli affetti più intimi allo Stato – ci ritiene invece corpi e menti da medicalizzare e da annientare, perché riconoscibili come altro dalla norma sociale. In fin dei conti non converrebbe nascondersi, rientrare nell’armadio e utilizzare codici comportamentali mimetici, riscoprendo il silenzio sociale, legislativo, mediatico e sperando di non essere più, per la società, soggetti da sanzionare, vivendo nel segreto delle proprie stanze private?

“Sì”, sarebbe la risposta più semplice e rassicurante di fronte a un mondo che, solo fino a un paio d’anni fa, sembrava prospetticamente avviato verso un riconoscimento progressista dei diritti civili e che invece, qui e ora, appare alimentato da rigurgiti di intolleranza fascista, razzista, xenofoba, sessista, omo-lesbo-bi-transfobica. Una spirale involutiva che potremmo percorrere anche noi, riscoprendo quel closet nel quale ci siamo rifugiat* per secoli,  premendo rewind e impedendo che Magnus Hirschfeld fondi il Comitato Scientifico Umanitario nella Germania di fine Ottocento o che Sylvia Rivera dia inizio alla rivolta davanti allo Stonewall Inn lanciando quel tacco detonatore di un intero movimento di liberazione. Sarebbe tutto meno faticoso e meno pericoloso, tutto più semplice, come mettersi lì, infilarsi gli auricolari e mettersi a danzare in “cameretta con la tua manina al vento”[1], aderendo alle regole imposte dall’esterno e lasciandosi quel margine di libertà da vivere esclusivamente con se stesse.

Ma tutto ciò è possibile? È possibile stare veramente in silenzio, non interagire con la norma o addirittura introiettarla fino al punto da esserne pasto? Perché, se è vero che “non c’è uno, ma più tipi di silenzio, ed essi fanno parte integrante delle strategie che sottendono e attraversano i discorsi”[2], allora anche i non detti in realtà parlano per noi e di noi, ci posizionano rispetto a quello che ci circonda sempre in maniera differente a seconda del grado di interazione con il contesto. Come quando non ci dichiariamo sul posto di lavoro perché rischioso per la nostra sussistenza o, ancora più comunemente, quando di fronte ai parenti il nostro orientamento sessuale si adegua alle loro aspettative, che sono quelle sociali e culturali, rifrangendo un’immagine altra da ciò che sentiamo e siamo, facendoci inserire e inserendoci all’interno dello schema eterosessuale.

E come esistono diversi gradi di silenzio, esistono diversi volumi per le parole che diciamo, nel momento in cui ci dichiariamo, in privato ai nostri affetti, con il rischio che si dimostrino accoglienti, in pubblico davanti a una platea nutrita, nella quale potrebbe esserci qualcun* che si stia chiedendo se sia il caso di dichiararsi o meno e che trovi il coraggio nelle nostre parole per farlo, con i propri tempi e le proprie modalità. Parole e silenzi, coming out e closet che hanno un potere: quello di definirci o di farci definire, di farci riconoscere o di non farci riconoscere, di autodeterminarci o di essere eterodeterminate/i. E se, purtroppo o per fortuna, dipende dai punti di vista, non è possibile riannodare il gomitolo della storia e riscriverla da capo, l’unica cosa che ci rimane da fare è prendere consapevolezza che, nonostante i rischi che corriamo tutti i giorni, se non continueremo noi a prendere parola, a definirci, a parlare a voce alta, a farlo per noi sarà ancora chi è dall’altra parte dello specchio, togliendoci la libertà e il potere di essere chi vogliamo essere.

Che ogni giorno sia un coming out day.

Da grande sarai frocio e lo stai per scoprire
Fidati di me, può far paura da morire
Ma non stare zitto in un Paese che ti ignora
Esci allo scoperto quando verrà l’ora”[3]

 

[1] Immanuel Casto, “Da grande sarai frocio”, The Pink Album, Freak & Chic, Artist First, 2015

[2] Michel Foucault, Storia della sessualità, vol I: La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano 1978, p. 28.

[3]  Immanuel Casto, op. cit.