ESISTENZA POLITICA E SPAZIO PUBBLICO: INTERVISTA A FEDERICO ZAPPINO, FILOSOFO E AUTORE DI COMUNISMO QUEER

Ciao Federico, ho notato che hai un nuovo look, radicale, completamente rasato, ma con la barba.

Hai visto? Mi guardo e vedo un gay di San Francisco.

Innanzitutto: come trascorre la quarantena un filosofo queer? 

Beh, con un tetto sulla testa, per ora. E col pensiero rivolto alle tante persone non hanno una stabilità abitativa, innanzitutto, oltre che una casa in cui star bene: al problema dell’avere una casa nel tempo dell’ingiunzione a restarci dentro si somma, infatti, il problema delle relazioni all’interno della casa. Quanto può essere più difficile, per una donna che vive una relazione violenta con un uomo, o fondata sullo sfruttamento sistematico del lavoro domestico, “restare a casa”? Quanto può essere più difficile per adolescenti e preadolescenti queer, trans*, gay, lesbiche, bisessuali, stare confinati dentro casa con genitori (innanzitutto padri) violenti o ostili nei confronti della loro sessualità e della loro identità di genere? Problema che, purtroppo, non è circoscritto ai soli adolescenti o preadolescenti: sappiamo che tante persone LGBT+ sono costrette a convivere con le famiglie di origine (nei casi in cui da quelle famiglie non siano state cacciate tempo addietro) anche in età adulta, perché magari non hanno un lavoro, un’indipendenza economica e dunque una casa. 

È di pochi giorni fa, ad esempio, l’appello dell’Associazione Trans di Napoli, «Siamo alla fame, scendiamo in piazza»,  a cui ha fatto seguito la presa di parola di Pia Covre del Comitato per i diritti civili delle prostitute e il lancio di una raccolta fondi per le sex worker. Si tratta di forme di mobilitazione dal basso che mettono in luce, tragicamente, come i decreti emergenziali per il contenimento della pandemia non colpiscono tutta la popolazione allo stesso modo, ma anzi aggravano la situazione generale di chi già occupa una posizione svantaggiata dal punto di vista culturale ed economico, e di chi, più di altri, ha bisogno di contare sul supporto della socialità. Le norme di “distanziamento sociale” e le restrizioni al movimento per molte di noi significano esposizione alla fame, alla possibilità di trovarsi in mezzo alla strada, alla violenza. Spero che questa esperienza possa disporci in modi nuovi alla lotta politica.

Uno dei momenti principali della politica LGBT+, come sappiamo, è il Pride. Manifestazione che, nonostante per molti sia solo una festa, dovrebbe continuare a essere considerato un momento di conflitto sociale nello spazio pubblico: in moltissime parti del mondo questa manifestazione è infatti proibita, e là dove è invece lecita non mancano i tentativi, anche violenti, di repressione o, viceversa, di neutralizzazione da parte delle istituzioni pubbliche e delle aziende multinazionali. A questo proposito, come interpreti la fretta con cui tante organizzazioni LGBT+ si sono apprestate ad annullare i Pride non appena il governo italiano ha proclamato lo stato d’eccezione, ai primi di marzo – e dunque, in netto anticipo rispetto alla consueta stagione dei Pride, tra giugno e luglio? Come interpreti questa auto-deprivazione di uno dei più importanti mezzi politici di cui disponiamo per dialogare, e per confliggere, con una società che non è fatta per noi? Alcune organizzazioni parlano addirittura di organizzare un Pride online, che sembra quasi un ossimoro: come può una politica che parte dai corpi, dai desideri, dai bisogni materiali, darsi online? Esisteranno ancora i Pride come li abbiamo conosciuti?

Condivido, innanzitutto, il tono preoccupato delle tue domande. La maggior parte delle organizzazioni LGBT+ ha cancellato direttamente i Pride; una minoranza li ha per ora sospesi, in attesa di comprendere l’evoluzione generale della pandemia. L’unica eccezione mi pare per ora costituita dall’organizzazione del Pride di Palermo, che qualche giorno fa mi ha inviato un documento da cui si evince un tentativo di opporsi a questa generale corsa alla sospensione o alla cancellazione anticipata delle manifestazioni pubbliche. Sostengono infatti che le questioni della salute (fisica e mentale) e della crisi della sanità pubblica fanno parte a pieno titolo delle nostre agende, e che l’attenzione nei riguardi di un welfare gratuito, pubblico, universale, in grado di accogliere le esigenze specifiche delle donne, delle persone trans*, di quelle intersex e di tutte le minoranze dovrebbe avere un ruolo centrale nelle nostre rivendicazioni, e dunque anche nei Pride. Per ora si tratta di una voce estremamente minoritaria; proprio per questo, tuttavia, si tratta di una voce preziosa. Mentre tutti si affrettano ad assecondare l’imperativo del “distanziamento sociale”, indotti comprensibilmente dalla paura, o dal terrore, neutralizzando anzitempo qualunque presenza pubblica, loro manifestano invece il bisogno di continuare a interrogarsi a proposito di quanto sta accadendo, di intrattenere una relazione critica con la paura che sentono, e di continuare a porsi come una presenza sociale intelligibile in quanto tale, rispettosa nei riguardi delle norme igieniche di prevenzione, ma non per questo desiderosa di agevolare la propria espulsione dallo spazio pubblico, né la disintegrazione in quanto tale dello spazio pubblico.

Dopodiché, le questioni che poni e i dati di realtà che porti a sostegno delle tue domande mi sembrano fondati. Mi chiedi se ci saranno ancora dei Pride: a questa domanda possiamo rispondere positivamente solo se riponiamo sufficiente fiducia nella capacità critica delle minoranze.

Saresti d’accordo con me se, in relazione ai Pride, dicessi che sarebbe meglio non preoccuparsi eccessivamente degli aspetti organizzativi? È d’altronde evidente che i prossimi Pride, se ci saranno, non potranno essere le grandi macchine di intrattenimento gioioso a cui ci siamo abituati negli ultimi anni – e che, talvolta, gli spezzoni più antagonisti del movimento LGBT+ giudicano negativamente. Ciò che ora dobbiamo preservare è, appunto, l’occupazione visibile dello spazio pubblico. Chi se ne importa se andremo in piazza con due carriole e quattro megafoni, piuttosto che con cinquecento carri e una sfilata favolosa: ciò che conta, in questo momento, è remare contro le possibili conseguenze delle norme di distanziamento sociale. Se ci focalizziamo solo sugli aspetti tecnici e organizzativi a risentirne sarà la politica, dal momento che sarà facile approdare a una generale smobilitazione e a una conclusione che suonerebbe pressappoco così: «Se non possiamo organizzare il Pride come abbiamo sempre fatto, allora non faremo nulla». Così, il distanziamento fisico diventerà letteralmente distanziamento sociale.

Sarei del tutto d’accordo con la tua proposta. Con un’aggiunta: potremmo sfruttare questo periodo per riflettere meglio sulla sostanza delle nostre rivendicazioni. Dalla crisi dell’AIDS in avanti, d’altronde, i Pride sono diventati sempre meno conflittuali, in linea con la spoliticizzazione delle minoranze. Pur continuando a essere osteggiati dalle forze politiche reazionarie, fasciste e neofondamentaliste (ostracismi verso i quali dovremmo essere unite nel rispondere, senza relativizzazioni di sorta), al contempo non possiamo non osservare, come in tante facciamo da tempo, che i Pride sono sempre più simili a vetrine per lo Stato, il Capitale e la Famiglia Eterosessuale. Patrocini istituzionali; carri gestiti dalle più potenti aziende multinazionali; attenzione a che tutto ciò che avviene durante i Pride non urti la cosiddetta sensibilità delle famiglie e dei bambini; forme di parassitismo da parte di falsi alleati… Che i Pride vengano sfruttati per consentire a questo o quello di vincere la campagna elettorale, di mostrare il proprio volto tollerante, di vendere qualcosa, ma soprattutto di stabilire quali forme di rivendicazione, di manifestazione e di espressione possano ambire alla riconoscibilità pubblica, è un fatto ineludibile. E altrettanto ineludibile è il crescente malcontento delle minoranze più politicizzate, che da tempo disertano la partecipazione ai Pride perché magari, oltre alle rivendicazioni del diritto di sposarsi e di fare bambini, vorrebbero tornare a discutere di politica, riportando al centro del dibattito le cause mai pienamente risolte dell’oppressione di genere e sessuale, le sue relazioni con quella razziale, le sue implicazioni materiali ed economiche, e magari anche la domanda a proposito di chi, da questa oppressione, deriva i maggiori profitti, mentre passiamo decisamente troppo tempo a litigare tra noi… Mi piacerebbe molto, ad esempio, se ricominciassimo a chiederci concretamente, e unite, come sovvertire ciò che Mieli definiva «norma eterosessuale», ciò che Monique Wittig definiva «sistema sociale eterosessuale» e ciò che io definisco semplicemente «eterosessualità», perché, quale che sia il nome che vogliamo usare, da ciò dipende la nostra oppressione culturale e materiale. 

Anziché impiegare questo tempo ad agevolare la nostra eliminazione dalla faccia della terra – perché non esistere pubblicamente, per noi, significa non esistere – potremmo ad esempio rileggere alcune delle pagine più interessanti della nostra storia di minoranze. Al Pride di New York del 1990, ad esempio, negli anni più cruenti della pandemia da HIV, venne distribuito un volantino anonimo dal titolo Queers Read This. E in questo volantino si leggeva qualcosa di questo tipo: «Queer non significa diritto alla libertà privata, di fare ciò che vuoi nella tua camera da letto. È qualcosa di più. Queer significa esistere pubblicamente, significa libertà di portare nello spazio pubblico istanze conflittuali contro quello spazio pubblico che si fonda sulla tua esclusione, ai fini di una sua trasformazione.». 

Possa dunque non abbandonarci la gelosia per questa forma di libertà sovversiva che può garantirci l’esistenza di uno spazio pubblico: non sarà importante essere in tante, sarà invece importante costituire una presenza pubblica significativa, coesa, critica, in grado di far germogliare qualcos’altro che non sia un servizio al Capitale, allo Stato, alla Famiglia Eterosessuale. Come al tempo della crisi dell’AIDS, lo stato d’eccezione indotto dall’attuale pandemia dimostra che abbiamo urgenti motivi di farlo, di difendere con le unghie e con i denti la possibilità di esistere pubblicamente, anche con due carriole e quattro megafoni, come suggerisci. Nude, con le carriole in mano.

Immagine da meltemieditore.it