COSTRUIRE UNO SPAZIO PER ALLEANZE OLTRE I CONFINI

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Quando si parla di femminismo, sempre più spesso salta fuori il concetto di intersezionalità: enorme matassa di significati che connette l’antirazzismo e la lotta di classe alla battaglia contro la disuguaglianza di genere. Non di rado, però, il termine viene lasciato in sospeso, senza venire a capo delle sue specifiche declinazioni all’interno del movimento, con l’illusione che le risposte che diamo a una parte di noi vadano bene per tutte.

L’intento di Laura Corradi, studiosa, attivista e traveller, nel saggio Il femminismo delle zingare. Intersezionalità, alleanze, attivismo di genere e queer , è sbrogliare parte di quei pregiudizi aggrovigliati intorno alla condizione delle donne della comunità zingara, talmente ampia nel nostro continente (si stimano 10 milioni di persone, senza contare quelle che vivono in Russia e in Turchia) da entrare a fatica all’interno della definizione di minoranza loro assegnata. Nonostante ciò, è «la più demonizzata d’Europa, soggetta a costanti e ripetute stereotipizzazioni, oggi nuovamente assurta a capro espiatorio, in particolare a causa delle politiche neoliberali e della crisi economica» scrive Corradi nel testo. Dipinta come fortemente patriarcale, retrograda e violenta, la comunità zingara può contare invece su donne che hanno salvato la «loro comunità dal Porrajmos (lo sterminio rom e sinti operato da parte del regime nazi-fascista) e sono state in prima fila nella lotta per l’abolizione della schiavitù in Romania» – spiega l’autrice a una giornalista di Linkiesta – abituate a vivere «al lato della strada, senza elettricità e con grandi disagi», spesso rivestendo anche il ruolo di capofamiglia.

Il processo di emancipazione descritto all’interno dell’opera inizia dalle parole: nel 2007, il Presidente romeno Băsescu allontanava una giornalista gitana, di cui non gradiva le attenzioni, con le parole «zingara puzzolente». Nei giorni successivi la frase divenne il motto sulle magliette delle manifestanti rom a sostegno della giornalista: indossato, il significante aggressivo diveniva veste d’orgoglio. La pressione mediatica attorno a Băsescu fu tale da costringerlo a scusarsi pubblicamente e “zingaro” venne preso, al pari di “queer”, come termine ombrello sotto al quale porre Rom, Sinti, Gitani, Gens du Voyages, Manouche, Camminanti e tutte quelle comunità itineranti senza confini.

Prese di posizione politiche tali da parte di donne zingare, sono, secondo l’autrice, visibili maggiormente in Gran Bretagna, in Spagna o nell’Europa dell’Est; meno in Italia e in Francia ma d’altronde, dice Corradi nel suo libro, «quando una cultura è circondata da persecuzioni, razzismo, povertà, quando si vive in baracche senza acqua e senza luce non c’è spazio per le lotte di genere. Appena le condizioni di vita migliorano però anche qui nasce il femminismo: succede in tutte le società patriarcali, cioè in tutte le società». Se per quelle occidentali – le gagé, cioè le non appartenenti alla comunità zingara – questa nascita ha coinciso con la fine degli anni Sessanta, il femminismo delle zingare deve aspettare i Novanta e la riunificazione della Germania. Ne consegue che le battaglie hanno, il più delle volte, obiettivi differenti, come la lotta al matrimonio precoce e l’abbandono della carriera scolastica, riassunta dalla campagna Sposati quando sei pronta dell’associazione Romni, presieduta dall’attivista rom Saska Jovanovic, con sede a Roma, o sono qualitativamente diverse nell’affrontare temi come la violenza domestica, proponendo come alternativa alla denuncia legale, spesso insufficiente e pericolosa per la compattezza di una comunità così discriminata, la rieducazione collettiva del soggetto violento, anche attraverso il teatro (Never going to beat you è un esempio della comunità traveller inglese). 

Inevitabile che si utilizzino anche definizioni differenti: «le donne zingare, le donne nere, indigene, aborigene e maori hanno messo in discussione l’uso della parola “femminismo”. Ciò che si può ritenere una tematica o una lotta femminista varia notevolmente in base al contesto culturale. […] Di fatto, mentre alcune attiviste di genere e donne leader si definiscono femministe, altre non amano l’espressione, che può apparire antagonista o minacciosa. Alcune attiviste di genere percepiscono il femminismo come storicamente legato all’eredità e al lessico delle donne bianche». Questo apparente cortocircuito linguistico poggia su una realtà accademica in cui «la maggior parte degli studi rom sono ancora controllati da studiosi/e bianchi/e non rom», e in cui «le università sono ancora luoghi coloniali, appannaggio delle classi benestanti» scrive ancora Corradi, mentre gli spazi per nuove definizioni di sé sono ancora in fase di costruzione.

La soluzione, come già preannunciato dal titolo, è quella di impegnarsi nella costruzione di alleanze, come quelle tra gitane e catalane in Spagna, che siano rispettose delle soggettività interessate, e fare dell’intersezionalità una maglia di realtà tra loro distanti, ma ugualmente valide.

Pubblicato sul numero 49 della Falla, novembre 2019