FORME DI RESISTENZA LGBT+ NEI MEDIA ITALIANI

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Italia, gennaio 2019. Occhiello: “C’è poco da stare allegri”. Titolo: “Calano fatturato e Pil ma aumentano i gay”. A entrare nell’Olimpo dei titoli tanto offensivi quanto trash è il quotidiano Libero e, a giudicare da quest’unico caso, parrebbe che quanto a rappresentazione LGBT+ in Italia stiamo davvero ancora a livelli di propaganda regressiva. Per nostra fortuna, lo scenario è più complesso del solo dileggio – nemmeno troppo velatamente – omofobo.

Il racconto che la stampa e, più in generale, i  media fanno delle persone LGBT+ nel nostro Paese è infatti una variabile dipendente della nostra situazione sociopolitica. Se riduciamo all’osso, semplificando, i maggiori risultati pratici dell’attivismo LGBT+ italiano, l’aver cambiato la percezione sociale dell’omosessualità è senz’altro uno dei più grandi. Oltre al cambio di paradigma che c’è stato nel discorso pubblico dall’approvazione della legge 76/2016 sulle unioni civili. Non ho dimenticato di citare le altre soggettività che compongono il nostro acronimo in divenire:  ritengo che il pubblico di massa sia molto più abituato a sentir parlare di froci e lesbiche (quest’ultime con lo svantaggio patriarcale di tendere a sparire in una gaiezza non meglio specificata che sa tanto di maschile come paradigma dell’universale), che di persone bisessuali, pansessuali, gender non conforming, non binarie, intersex, trans, ma su questo tornerò più avanti.

Fino a ben dopo la liberazione sessuale portata dall’onda dei movimenti studenteschi e poi femministi dal 1968 in poi, senza nemmeno tirare fuori l’ovvia concausa dell’influenza della chiesa cattolica sulla politica e la società italiane, la rappresentazione dell’omosessualità sulla stampa, riletta con la griglia valoriale e concettuale di oggi, fa rabbrividire. In questo, l’Italia non si differenzia dagli altri Paesi occidentali: l’omosessualità nel 1952 era stata inserita come “disturbo sociopatico della personalità” nel primo Dsm (Diagnostic and statistical manual of mental disorder) a cura dell’American Psychiatric Association, e dovremo attendere il 1990 per vederla stralciata dalla lista delle malattie mentali pubblicata dall’Organizzazione mondiale della sanità.

Meritano una menzione speciale tre casi, tutti accaduti nel corso degli anni ’60, prima che la nuova morale sessuale si diffondesse, per le loro implicazioni che andavano al di là dell’omosessualità, due volte su tre usata come mezzo per screditare a fini politici. In quello che è passato alla storia come lo scandalo dei balletti verdi, iniziato nel 1960 a Brescia, molti personaggi anche noti vennero accusati di partecipare a festini a sfondo omosessuale in cui sarebbero avvenuti spaccio di droga, tratta di giovani con la Svizzera, prostituzione, etc. Dopo un’inchiesta giudiziaria durata 4 anni, il tutto si rivelò una montatura dell’estrema destra in vista delle elezioni comunali. Per il rapimento e l’omicidio del 12enne Ermanno Lavorini, accaduto a Vecchiano il 31 gennaio 1969, si seguì la pista della pedofilia omosessuale, mentre si trattò in realtà di un rapimento a fini di riscatto andato male per il finanziamento di un gruppo monarchico. Aldo Braibanti, artista e intellettuale comunista, venne processato e condannato nel 1968 con l’accusa di  aver plagiato il suo giovane compagno Giovanni Sanfratello. Il caso ebbe vasta eco nel mondo politico e culturale: molti intellettuali, da Umberto Eco a Pier Paolo Pasolini ad Alberto Moravia, si mobilitarono per salvare Braibanti. Senza peraltro riuscirvi: la sua è l’unica condanna per plagio mai comminata in Italia nei 61 anni in cui è esistito il reato.

Con gli anni ’70 la situazione migliora, e iniziano le prime auto narrazioni con il periodico omonimo del Fuori (Fronte unitario omosessuale rivoluzionario italiano, nda), la pagina frocia del quotidiano Lotta Continua, la Bollettina del Cli (vedi pag. 4), la stampa progressista, e poi le prime trasmissioni tv con lo stoico Franco Grillini che pacatamente rispondeva agli attacchi e ad accuse quali omosessualità=pedofilia, l’omosessualità si può trasmettere come le altre (sic) malattie, la tv di intrattenimento che voleva (e vuole ancora, per certi versi) raccontare storie di “casi umani”, etc. Oggi in confronto la situazione è rosea, perché la maggioranza delle testate, almeno quelle nazionali e a eccezione di quelle dei pro vita e dell’estrema destra, sono allineate su un minimo sindacale di rispetto che si riflette sia nel lessico degli articoli che nei criteri di notiziabilità delle redazioni. 

Delle persone trans si parla, sui media generalisti, ma siamo appena uscite dal tunnel della narrazione della trans (che ancora fiorisce sulle testate di provincia) chiamata “viado brasiliano”, a cui dare del maschile perché non le si riconosce nemmeno la dignità umana di usare il suo pronome di elezione. Adesso siamo nella fase “tv del dolore”, in cui, tranne l’unica eccezione di Vite divergenti, curato dal Mit (Movimento identità trans, nda) e andato in onda su Real Time nel 2015, in cui le persone trans stesse hanno avuto il controllo sul processo produttivo, le storie delle persone trans sono sempre pietistiche e organizzate narrativamente in modo da suscitare empatia. È il caso della trasmissione Storie del genere, condotta da Sabrina Ferilli, o dell’inchiesta uscita sulla Stampa lo scorso novembre, che pur raccontando la realtà della riassegnazione di genere in termini tutto sommato neutri, se non positivi, e pur dando l’informazione che grazie alla sentenza della Corte costituzionale 180/2015 è ora possibile cambiare sesso all’anagrafe anche senza chirurgia, poi nelle storie che prende a esempio parla soltanto di individui che hanno scelto una strada altamente medicalizzata, operandosi anche ai genitali, e definendola in termini di rinascita.

Con l’avvento dei social media si è reso sempre più evidente lo scollamento tra media generalisti e attivismo LGBT+, che finalmente si può auto-rappresentare in modo facile e istantaneo, ed è aumentata l’importanza dei self media, a iniziare da Youtube. Un caso recente di femminicidio ha mostrato l’ampiezza di questo distacco. Si tratta di quello della 28enne Elisa Pomarelli, assassinata da Massimo Sebastiani, suo amico, ossessionato da lei nonostante o forse proprio a causa della sua indisponibilità sessuale. Pare che Elisa non fosse eterosessuale, e che anche questo abbia contribuito ad aumentare la frustrazione  omicida di Sebastiani. Oltre alla solita narrazione riservata alle vittime di femminicidio, che merita una trattazione a sé (Il Giornale ha addirittura definito l’omicida “gigante buono”, sic), la parola lesbica non è mai stata scritta, almeno sulle testate generaliste. Su questo caso si è scatenata una battaglia social tra attiviste, che accusavano i/le giornalist* di vigliaccheria, di mentire per omissione, di lesbofobia, e giornalist* che difendevano questa scelta appellandosi alla deontologia professionale. In parole povere, non avendo mai Pomarelli esplicitato in modo documentabile il suo lesbismo, e non essendo un’attivista, definirla lesbica sarebbe stata un’illazione,  perché non si è oggettivamente cert* del suo orientamento (avrebbe potuto essere anche bisessuale o pansessuale), e una violazione della sua privacy. L’eterosessismo italiano informa anche la deontologia giornalistica, che infatti prevede di NON rivelare l’orientamento sessuale a meno che ciò non sia fondamentale in base al principio di essenzialità e completezza dell’informazione. Prevede anche, in base al diritto all’oblio, di NON fare cenno alla transizione di una persona trans, se questa è un’informazione non rilevante ai fini di quanto si sta raccontando. La doverosa tutela delle fasce di popolazione più fragili non c’è, in realtà, quasi mai.

E proprio per questo, quando raramente la deontologia viene applicata davvero, come nel caso di Elisa Pomarelli, si sente il sapore di un “non lo dico perché lesbica è parola infamante”. Anche se, a norma di legge e di deontologia, è corretto non dirlo, e il giornalista che lo faccia potrebbe venire sanzionato. 

In un mondo funestato dall’onda montante dei sovranismi, dei populismi e dei fascismi, diventa ancora più importante l’esistenza di testate LGBT+ che possano auto rappresentare, con professionalità e competenza, le cronache, le storie e i valori di quella che è a tutti gli effetti una fetta di popolazione ancora oppressa. Certo, il mondo del giornalismo è nel mezzo di una crisi epocale, in cui non si è ancora capito quale modello economico possa funzionare per garantire informazione di qualità pagando al contempo un giusto compenso alle/ai giornalist*, e la galassia delle testate LGBT+ italiane non fa eccezione. Tutte con poco budget, si limitano spesso a tradurre notizie dei siti statunitensi o a fare clickbaiting, senza verifiche sulle fonti. Ma questa è ancora un’altra storia, che merita un capitolo a sé. 

Chiudiamo con un auspicio: che le testate LGBT+ italiane trovino un modello di business che consenta loro di sopravvivere con dignità e professionalità, offrendo il servizio di mediazione con la realtà che è una delle prime ragioni d’essere del giornalismo stesso, e svelandoci le nostre storie nascoste al mondo mainstream, ci ricordino, soprattutto a quell* di noi ancora in the closet o che vivono isolat*, che anche la nostra felicità è possibile. Come Falla il modello economico non lo abbiamo ancora trovato, infatti siamo tutte volontarie, ma ci proviamo con tutte le nostre forze.

Pubblicato sul numero 50 della Falla, dicembre 2019

Immagine da  dusilaw.eu e da ilsole24ore.com