«Femminista, lesbica dichiarata», così presentano la regista Céline Sciamma le curatrici Federica Fabbiani e Chiara Zanini nell’Introduzione di Architetture del desiderio. Il cinema di Céline Sciamma, pubblicato da Asterisco edizioni.
So bene che non dovrebbe essere lecito definire una persona con pochi attributi, eppure da questa dichiarazione si allarga la prospettiva sulla personaggia, collocandola all’interno dei conflitti, profondi e politici, che vive la cinematografia francese e non, ma anche nel panorama dei femminismi intersezionali e queer – e mi scuso per le definizioni inevitabilmente imprecise e mancanti – che qualificano e danno vita alle ricerche del contemporaneo.
Sia il saggio, sia la cinematografia di Sciamma, come osserva nella Postfazione Ilaria De Pascalis, producono un discorso che comunica e condivide cosa significhi avere (essere) una soggettività queer, entrando in sintonia con le proposte delle studiose che fanno riferimento alla queer theory e alla pratica etica che ne deriva, amplificando la scoperta rivoluzionaria che ha costruito la base culturale e politica del femminismo occidentale: l’affermazione «il personale è politico». Dunque, scrivono ancora Fabbiani e Zanini, la regista tesse trame di apertura al cambiamento collettivo e al tempo stesso alla libertà di ciascuna di essere se stessa.
Mi sembra di individuare, inoltre, una scia di continuità con il femminismo della seconda metà del Novecento, nella ricerca – sottolineata sempre dalle curatrici – dello sguardo femminile nel e per il cinema, che non significa un semplice rovesciamento di potere rispetto al male gaze, quindi la subordinazione maschile alla visione imperante dell’altro sesso, ma un differente porsi e vedere i sentimenti e le emozioni di chi è oggetto dello sguardo, annullando per quanto possibile una visione reificante dei soggetti.
«Ribaltamenti, manomissioni», scrivono le curatrici a proposito dell’opera di Sciamma, che offre una «diversa possibilità narrativa al cinema». Parlare di maschile e femminile appare superfluo in questa prospettiva, come dice Sciamma stessa, che davanti alla richiesta di come ci si senta a essere una regista femmina risponde che preferirebbe che le si domandasse più semplicemente come ci si sente a essere regista. Un’uscita dalla norma che regola i comportamenti per mostrare plurime possibilità e modi di essere. E già la molteplicità dichiarata, mostrata e vissuta, appare come una radicale ribellione alle regole.
Il volume presenta in seguito una serie di contributi critici sui film della regista, firmati ognuno da una diversa studiosa. Mi sembra un’idea riuscita, poiché propone a chi legge svariati punti di vista su ogni opera, ma riesce anche a offrire una lettura di tutta la produzione di Sciamma con prospettive di volta in volta diversificate.
Se dunque l’interpretazione di Tomboy nella scrittura di Silvia Nugara sottolinea l’interdisciplinarietà con cui si può, e deve, osservare il film, credo che questa affermazione possa valere anche per le altre pellicole. Come mi sembra opportuna l’osservazione rispetto al personaggio principale che sta sulla soglia, sia per la sua età ancora infantile, sia per il genere di cui mostra l’instabilità. Forse questo stare sulla soglia può allargarsi alle altre personagge di Sciamma e ai modi che abbiamo anche noi nel vivere la contemporaneità, che invita chi lo desidera a guardare al di là, oltre.
Elisa Cuter discute, nel suo contributo, di Bande de filles, intitolato in italiano, sciaguratamente, Diamante nero. Si tratta di un racconto in cui la protagonista vive e opera una serie di rifiuti, mentre la banda che ha creato con altre ragazze appare l’unico momento saldo, un’oasi nella sua vita fatta di un dedalo di strade sbarrate. Lì, nella stanza di albergo che hanno affittato, queste giovani donne paiono vivere finalmente la loro libertà, autorappresentarsi secondo i loro desideri, e la macchina da presa obbedisce a questi desideri. Ma è appunto un luogo chiuso, protetto e appartato. Fuori, ogni possibilità pare esclusa.
E così appare come luogo protetto il film preso in esame da Daniela Brogi, Ritratto della giovane in fiamme, in cui si parla di un amore costretto al silenzio che prende vita soltanto attraverso la narrazione. Nella realtà, quella palese e quotidiana, non ha diritto di esistere. Separate nel destino cui devono sottomettersi, l’amore tra le protagoniste si reinnerva nelle immagini evocate che le riscattano da una silenziosa sparizione.
Petite maman viene commentato da Ilaria Feole, che sottolinea fin dall’inizio un tema centrale nella cinematografia di Sciamma: l’infanzia. L’infanzia di una bambina, Nelly, e l’infanzia più in generale poiché la vicenda appare, volutamente, fuori dal tempo. Così suggeriscono l’abbigliamento, l’ambientazione del film, i riti quotidiani, che costruiscono un quadro complessivo e sfumato di nostalgia che non si colloca in una precisa datazione. Anche qui la storia si snoda su una ricerca di identità, in contrasto con le norme e le convenzioni che pretendono di regolare le vite. Avviene a un certo punto una sorta di magia, si supera una soglia temporale ed emotiva cruciale: Nelly incontra la madre, Marion, alla sua stessa età, e con questa bambina instaura un rapporto di sorellanza e di ricerca comune.
Queste riflessioni mi sembra si colleghino al commento di Federica Fabbiani sulle sceneggiature che Sciamma ha prodotto per i film di altri registi. In particolare, nell’osservazione sul mondo dei bambini, il riferimento è a La mia vita da Zucchina di Claude Barras. Zucchina è una bambina che pensa, e capisce che può essere felice anche senza mamma; come Nelly, rende concreta per sé una sorta di piccola mamma.
L’assunto del film, scrive Federica, è molto chiaro: per parlare dei bambini non si può prescindere da loro, sia come protagonisti sia come spettatori; d’altronde tutti e tutte abbiamo avuto l’esperienza di essere bambini e a questa esperienza è giusto che ci si rifaccia.
È anche questa una delle potenti manomissioni che opera la regista, la quale – nell’intervista presente nel volume – ripete che non ha importanza il genere dei personaggi, ma la volontà politica di rovesciare le strutture portanti di questa società. Non basta una protagonista donna per fare una rivoluzione, afferma, importante è piuttosto la condivisione, con chi vede il film, del punto di vista. E per ottenerla occorre produrre belle immagini, opere di valore, che sappiano coniugare arte e profitto, detto senza troppo scandalo perché anche il cinema è un’industria.
Ilaria De Pascalis, come già accennavo, firma una Postfazione che riprende molti dei temi discussi nel testo, a cui aggiunge alcune sottolineature che nuovamente ribadiscono gli sguardi politicizzati della cinematografia di Sciamma. E questo significa vivere e osservare il contemporaneo con consapevolezza senza semplificarne la complessità.
Si tratta di un impegno politico ed etico in cui si negozia e si ricerca, in ogni momento, spazio per le proprie libertà, spostando confini, trovando uno stile di narrazione che riesca a tradurre in immagini e discorso questa perpetua tensione.
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