«Cosa ti devo dire, un’intervista a me sul 2008?»
E sugli anni dopo.
«Gli anni dopo per me non ci sono più stati».
La prima volta che incontrai Graziella Bertozzo non fu di persona e non sapevo nemmeno quale fosse il suo nome. Era il 28 giugno del 2008, a Bologna si era appena svolto il Pride nazionale. A chi come me aveva solo accennato l’entrata in Piazza VIII agosto – dove finiva il lunghissimo corteo di duecentomila persone partito dai Giardini Margherita – per poi tornare a casa perché troppo stanca, arrivò in serata la voce di un episodio grave: qualcuno era stato arrestato. Chi? Un’antagonista, una lesbica, non so come si chiama, una matta che ha fatto un casino sotto il palco, ha aggredito delle volontarie, ha picchiato un poliziotto. Si diceva questo. Avevo 25 anni, ero estranea alla politica di movimento e la mia storia al Cassero sarebbe cominciata solo qualche tempo dopo.
Nei giorni successivi incontrai Graziella sui giornali, su Facebook, nelle conversazioni estive intercettate tra un drink e l’altro. Per anni, il suo nome spuntò fuori a mezza bocca, protagonista negativa di una storia confusa e incompleta di cui non afferravo la portata. Nel 2015, consigliera di Direttivo del Cassero, in una riunione con altre realtà bolognesi LGBTQ+ qualcuno mi disse che era difficile fare rete con chi «aveva fatto arrestare Bertozzo e spaccato il movimento nel 2008». Graziella si manifestava come uno spettro e spostarla su un piano concreto era arduo: chi la difendeva, dava per scontati passaggi affatto chiari; chi la disprezzava, la liquidava malamente. Se devo dare un nome all’immagine astratta che avevo di lei, un’immagine che nulla aveva a che fare con lineamenti che non conoscevo, ora direi che era una strega. La strega della comunità LGBTQ+, un archetipo perfetto per una donna che non era mai stata al proprio posto, pericolosa e scomoda, spaventosa. Un’eretica, da bruciare e dimenticare.
A 15 anni esatti, con un contesto LGBTQ+ cittadino profondamente mutato, restituire la memoria della dimensione politica e umana di ciò che le accadde e del perché le accadde è indispensabile. Non penso sia indispensabile solo su un piano politico, lo è più di ogni altro su quello personale. E nel caso di Bertozzo, che è quello delle poche persone di cui si può dire senza retorica di aver fatto la storia del movimento LGBTQ+ italiano e lesbico in particolare, i due piani non sono separabili.
La prima volta, dunque, in cui incontro davvero Graziella è nel 2022 a Some Prefer Cake grazie a Elena Biagini, la persona che più mi ha chiarito che la storia confusa che conoscevo era molto più complessa, oltre che parziale. La seconda è stata qualche settimana fa nella casa dove vive con Titti Castiello, sua compagna già all’epoca dei fatti, per questa intervista.
I fatti
Il 28 giugno 2008, durante i discorsi di chiusura del Pride nazionale a Bologna, Graziella Bertozzo, militante della rete Facciamo Breccia che partecipava al Pride senza aver aderito alla piattaforma politica, viene fermata e accusata di «resistenza a pubblico ufficiale e lesioni finalizzate alla resistenza» mentre cerca di oltrepassare le transenne sotto il palco presidiato da alcunə volontariə. Nasce una discussione accesa. Voleva raggiungere altrə compagnə sul palco durante l’intervento di Porpora Marcasciano, rappresentante del Mit, il quale faceva parte del Comitato Pride, e tra le fondatrici di Facciamo Breccia, per srotolare lo striscione «28 giugno 1982. Indietro non si torna. Facciamo Breccia», che «rivendicava la storia del movimento lesbico, gay e trans che in quella data aveva ottenuto il Cassero di Porta Saragozza». L’incursione non era stata concordata con l’organizzazione. Un poliziotto in borghese, non è chiaro se chiamato o meno, interviene senza identificarsi e con l’aiuto di altri poliziotti la ferma e la porta in questura. Uscirà qualche ora dopo, grazie alla presenza di un centinaio di militanti sotto la questura.
Il 29 giugno esce il comunicato di Facciamo Breccia sull’accaduto: «Siamo sconcertate/i che, alla conclusione di un grande corteo […] sotto il palco sia potuto accadere un simile fatto ai danni di Graziella Bertozzo, una delle prime lesbiche visibili del nostro movimento, per anni alla direzione di Arcigay – Arcilesbica, da sempre impegnata in tanti percorsi per i diritti di lesbiche, gay e transessuali e, tra le altre cose, una delle organizzatrici del Forum Sociale Europeo di Firenze del 2002. Non si era mai vista la polizia legittimata sul palco di un pride: il concetto di “sicurezza” messo in opera, […] è risultato un’azione violentemente repressiva e diffamatoria contro un’attivista riconosciuta da tutte e tutti». L’1 luglio escono invece due comunicati da parte dell’organizzazione del Pride. Il primo, a nome di Arcigay e Arcilesbica, è firmato da Aurelio Mancuso e Francesca Polo, presidenti nazionali delle due associazioni: «[…] è invece un dato di fatto che Bertozzo non aveva diritto di salire sul palco, […] Bertozzo non è nuova ad azioni e atteggiamenti alterati e aggressivi, l’uso della violenza verso le volontarie del Pride e gli agenti di Polizia hanno portato al fermo e alle conseguenti denunce. Per non alimentare scoramento nella piazza […] dal palco abbiamo fatto appello alle forze dell’ordine perché rilasciassero la Bertozzo. Oggi però in nessun modo vogliamo esprimere solidarietà nei confronti di una militante sempre in cerca dello scontro».
Il secondo è del Comitato Pride, a cui manca però il nome di Marcella Di Folco, presidente del Mit, che si rifiuta di firmare: «Ci è risultata incomprensibile la mancata chiara adesione di Facciamo Breccia al Pride Nazionale, […] Quello striscione non era previsto, nel senso che nessuno degli organizzatori sapeva che sarebbe apparso: Facciamo Breccia […] ha voluto “parlare” dal palco comunque senza condividere questa “scelta” con nessuno degli organizzatori o dei responsabili politici. Scelta per noi assolutamente incoerente, irrispettosa e prevaricante».
Il processo non si svolgerà mai, ma dopo circa tre anni le denunce della polizia saranno archiviate per «non aver commesso il fatto».
L’intervista
«Per prepararmi a questo dialogo ti ho cercato un po’ di materiale di quegli anni», mi dice Graziella. Siamo sedute in salotto, lei, Titti e io, e prima di cominciare ascoltiamo la puntata di Sulla Breccia dell’Onda di Radio Onda Rossa del 2 luglio. L’arresto viene raccontato da militanti di Facciamo Breccia e ci sono interventi telefonici tra solidarietà e politica. Gli stessi, insieme a molti altri, che possiamo leggere ancora.
Nel sentire le voci sconvolte, arrabbiate, anche incredule, di chi era al fianco di Graziella, provo l’indignazione calda che avrei voluto sentire all’epoca.
In questi giorni ho letto tanto materiale, ma è la tua voce a mancare. A parte la lettera che hai scritto qualche giorno dopo, ancora rintracciabile sul sito di Facciamobreccia.org, la tua voce è mancata per anni. Questa storia non è molto conosciuta, e chi la conosce spesso la conosce male come la conoscevo male io. È la storia dolorosa di una cancellazione e di una ferita gravissima per il movimento LGBTQ+ bolognese e non solo.
«La ferita è grande. Ma la ferita non nasce nel 2008, nasce nel 1996. Allora capisci la storia di oggi, allora capisci Gramolini e Mancuso. Ora è facile essere contro Arcilesbica».
Perciò torniamo indietro, alla ricerca di una memoria che è storia e che parte dalla domanda: chi è Graziella Bertozzo? Un bel ritratto personale e politico l’hanno tracciato Simone Alliva nel settimo capitolo di Fuori i nomi (Fandango, 2021) ed Elena Biagini in L’emersione imprevista (ETS, 2018). Ma è necessario ripercorrere alcune fasi della sua militanza per capire ciò che avvenne dopo.
«La mia storia in Arcigay parte a Verona nel 1984, ancora praticamente non c’era, avevo trent’anni. Io sono nata in provincia di Vicenza, verso i dodici anni ho capito di essere lesbica, ma nel ’67 non esistevano le lesbiche, pensavo di essere marziana. Non c’era stata ancora nemmeno Spolato. Però c’era il movimento studentesco che veniva da Trento a manifestare alla Marzotto, io facevo il Classico e mi ricordo che mi riconobbi nell’essere parte della classe operaia, mio babbo lavorava alla Recoaro. Questo mi ha cambiato la vita e ho passato l’adolescenza concretizzando questa appartenenza di classe che mi ha dato un’identità. Mi trasferii a Verona al terzo anno di Medicina, ma mio babbo morì di infarto nel ’78 e persi chi mi manteneva, lasciai l’Università. A Verona cominciai a vivermi come lesbica, poi vinsi il concorso come amministrativa nella scuola pubblica. In Arcigay cominciai a fare cose, erano quasi tutti uomini, pieno periodo Aids. Conobbi Grillini a un dibattito che organizzammo su omosessualità e religione, mi disse: “I giornalisti non hanno capito che la cosa più importante successa oggi è che sul palco c’era una lesbica visibile con nome e cognome”».
Poi sei diventata segretaria nazionale.
«Prima ho vissuto il gruppo ArciGay Donna di Verona e poi ho scritto il Progetto ArciGay Donna, nel 1989. Questa è la cosa più importante che ho fatto, lo scrissi durante un viaggio tra Verona e Roma in treno e da lì in poi ho mantenuto questa idea. Grillini aveva capito l’importanza strategica di inserire le donne nell’associazione. Avevamo due obiettivi diversi: il suo era coprire il fianco dagli attacchi rispetto all’Aids, perché sarebbe stato più difficile attaccarci con le donne e noi ci saremmo spese per la causa; il mio era la visibilità delle lesbiche. Nel 1990 vengo eletta segretaria con Grillini Presidente, propongo e viene accettato al Congresso il 50% di donne in segreteria nazionale e lavoro per una maggiore presenza delle lesbiche nell’associazione. All’inizio funzionò bene ma andando avanti Grillini assunse posizioni sempre più normalizzanti mentre cresceva un’ala dissidente a sinistra, soprattutto rappresentata dalle lesbiche, e in cui mi riconoscevo. Nel 1994, dopo il primo Pride di massa di Roma con una inaspettata numerosa presenza delle lesbiche, ritenni che il mio compito fosse finito: a quarant’anni non volevo e non potevo più essere il loro volto, era tempo di qualcuna più giovane. Avevo voglia di tornare a essere una qualunque».
Cosa accadde?
«Finché c’ero io, mediavo, spesso assumevo su di me i conflitti tra gay e lesbiche. Quando me ne sono andata, le lesbiche in segreteria nazionale entrarono subito in conflitto. Grillini non aveva più me che gli paravo il fianco. Non erano solo le lesbiche, ma tutta l’area sinistra di Arcigay a contestare alcune posizioni. Grillini allora si inventò che le lesbiche erano mature per un soggetto autonomo. Per far fuori tutta quell’area pensò bene di fare, prima del congresso del 1996, un’assemblea al Cassero dove fece passare la mozione per far saltare le quote al 50% e saltò anche un’altra cosa che avevo voluto fortemente, ovvero l’equilibrio nelle deleghe nazionali tra i circoli politici e i circoli commerciali, perché altrimenti chi aveva più tessere per via del ricreativo, schiacciava 20 a 1 chi era solo un circolo politico. Fu quell’assemblea che portò alla possibilità della costituzione di Arcilesbica al Congresso. Io glielo dissi: da oggi hai in me una nemica politica. Quella spaccatura è stato l’errore più grande che si potesse fare, secondo me. Da lì nasce la frattura».
Quindi Arcilesbica nacque anche per staccare e isolare la parte più antagonista.
«Questo portò al distacco di tutti i circoli più a sinistra dentro Arcigay. Azione gay e lesbica si disaffilia quell’anno, io mi ero appena trasferita a Firenze e vi militavo, uscirono il Maurice di Torino, il Pink di Verona, il Gao di Pisa, l’Open Mind di Catania, il MOS di Sassari… E alcuni di questi soggetti furono dieci anni dopo tra i principali fondatori di Facciamo Breccia, aggiungendosi a esperienze femministe, antagoniste, trans, antifasciste. Ancora adesso, io vedo ovunque orfani di Facciamo Breccia, chi cerca di capire cos’è successo nel movimento negli anni Novanta, finisce lì».
Sei stata trattata da personaggio a dir poco controverso da parte del Comitato Pride dopo l’arresto, si portava dietro tutto questo?
«Sì, per questo ero controversa. La cosa che non hanno mai detto è che io ero stata per quattro anni segretaria nazionale dell’Arcigay, se lo sono dimenticati? È stata una dimenticanza voluta? Non che io ci tenessi particolarmente, però…
Facciamo Breccia è andata avanti finché non è finito il processo. Io sono costata al movimento 15.000 euro, alla fine c’è stato il non aver commesso il fatto. L’avvocato mi disse: all’inizio ti vedevo male. Quello che dichiarava che l’avevo preso a calci e gli avevo rotto il menisco era il vicequestore».
Perché ti arrestarono?
«Avevo guidato il carro di Facciamo Breccia, ero stanca. Mi chiamarono per salire sul palco. Altri compagni si erano intrufolati ma erano pochi. Io mi avvicinai alle transenne per passarci sotto, delle volontarie mi fermarono e io dissi loro che dovevo andare sul palco, litigammo. Qualcuno mi afferrò di peso e cercai di divincolarmi. Capii che era la Polizia quando mi sono trovata con la faccia sull’erba, il crack delle manette dietro. Mi sono mossa, la manetta è uscita perché ho i polsi piccoli e quando se ne sono accorti si sono incazzati, mi hanno trattata come una pari dal punto di vista fisico e quindi mi hanno ributtata giù con le manette strettissime».
Quanti anni avevi nel 2008?
«Avevo 54 anni. Mi hanno trascinata dove avevano il furgone, tirata su di peso con la testa giù. Ho capito che ero in questura perché c’ero stata per rifare il passaporto. Mi hanno tenuta ammanettata per ore e il mio terrore era di rompermi un polso. Mi avevano fatto tutte le procedure per portarmi in carcere, mi hanno ritirato i lacci delle scarpe, preso le impronte, le foto segnaletiche, mi hanno fatto la perquisizione anale. Sono stata su una panca per ore, ogni tanto qualcuno passava e mi provocava. Meno male che non avevo più i fumogeni che avevamo usato per la performance davanti al Cassero, ti immagini se li avevo?!».
È incredibile che una cosa del genere sia successa a un Pride.
Titti: «Avevano creato un clima completamente non politico. Dietro questo Pride c’era gente che non aveva la consapevolezza di essere in un contesto politico, come non fossero gay, lesbiche o trans. Sembravano convinte di godere di un privilegio, il privilegio di sapere che non sarebbero mai state picchiate arbitrariamente. Solo questo tipo di persona poteva immaginare di mettere in piedi un apparato securitario così. Come non rendersi conto che la polizia in un contesto come quello è pericolosa per le persone LGBTQ+? Non si può disconoscere questo aspetto».
Nel movimento ora si parla molto della presenza di Polis Aperta ai Pride.
Graziella: «Non mi riferisco a Polis Aperta, ma ti dico cosa penso: che essere gay o lesbica non ti salva da nulla. Solo in un mondo liberato, un gay e una lesbica può essere stronza come gli altri. Io ho sempre pensato che essere lesbica non mi ha resa migliore degli altri, però essermi vissuta in un contesto di violenza e sopraffazione mi ha fatto scegliere da che parte stare».
Titti: «Io sono entrata in Facciamo Breccia non formata, quel movimento mi ha formata. Quello che ci faceva scontrare con Arcigay e Arcilesbica è che loro portavano avanti una battaglia vertenzialistica e non se ne rendevano conto. Polis Aperta è una battaglia vertenzialistica anche quella, non è politica, è cercare di sopravvivere come lavoratorə dentro un contesto istituzionale».
Polis Aperta sostiene di poter cambiare le cose dall’interno, con la formazione.
Titti: «Sono scettica sui corsi di formazione che puntano a trasferire competenze senza una reale cultura. Sono foglie di fico, operazioni di facciata che non cambiano la realtà di una forza di Polizia che è costituzionalmente autoritaria. Dietro queste istanze vedo solo la costruzione di carrierine e qua a Bologna la cifra è un po’ quella. A tutti i livelli, anche del movimento. Bologna è permeata di collateralismo istituzionale.
Questo è stato uno degli aspetti più deleteri rispetto a questa vicenda. Si è creato una sorta di non detto dopo Graziella, perché l’ambiente anche dell’associazionismo e dei collettivi bolognesi si basa sulle relazioni e quello che è successo metteva in imbarazzo tantissimo tutti, non solo il Cassero, anche quelli dalla parte di Graziella. Ci siamo sentite espulse dal movimento».
Nella tua lettera dicevi che avresti continuato a esserci. Quindi non è stata una scelta aver smesso di fare politica.
Graziella: «Dopo, sono stata sempre un’ospite, neanche tanto gradita. Oppure gradita per quell’occasione in particolare. La lettera la sottoscrivo tutta ancora oggi, a parte l’esserci. Lo pensavo con ottimismo, era una bella intenzione, ma non ho più potuto».
Titti: «Io non mi sono sentita più a mio agio. Bologna ha anche una sua perversione, quella di porsi su un piano di elaborazione intellettuale alto e un po’ elitario. Ho finito anche per annoiarmi, tanto più che nel movimento queer a Bologna sono confluite tante persone alleate etero che ne hanno cambiato un po’ la cifra».
Non ti hanno perdonato l’essertene andata da Arcigay.
Graziella: «Le mie dimissioni hanno significato non esistere più, e io lo sapevo. Sono stata orgogliosa di tornare a essere una militante semplice. Il mio obiettivo non era entrare nella storia, ma cambiare il mondo e un po’, per quello che può fare una persona, l’ho cambiato. L’amarezza che mi rimane è la cattiveria che ho sentito: che mostri ho creato! Hanno detto che ero un’isterica, detto da gente che Arcigay e Arcigay Donna l’hanno fatta con me, come Francesca Polo. La loro miseria mi è dispiaciuta. La pochezza di Bologna non mi ha stupita, l’avevo colta già prima».
Titti: «Nel 2008 tentammo di dire che Mancuso e Gramolini erano un problema».
Gramolini non era presidente di Arcilesbica, era Francesca Polo.
«Gramolini decideva in Arcilesbica anche quando non era presidente. Mi dissero che quella sera brindarono. Ci furono delle fratture interne».
Tra gli attestati di solidarietà per te ci fu anche quello di Titti De Simone.
«Anche lei è stata cancellata da Arcilesbica. Titti aveva un suo percorso dentro Rifondazione, non deve ringraziare Arcilesbica per essere andata in Parlamento. Sono le altre che hanno usufruito della visibilità creata prima da Arcigay Arcilesbica quando erano unite e poi della visibilità di De Simone. Lei è stata l’ideale per le lesbiche, è stato utile avere una politica di professione. A me non andò bene l’operazione di Grillini, non De Simone. Gramolini questa visibilità non l’ha mai avuta, ce l’ha adesso grazie alle sue posizioni».
Vi siete ritirate ma non si smette mai di fare politica, cosa ne pensate del movimento LGBTQ+ attuale?
Titti: «Le persone più giovani percepiscono come molto oppressiva la gabbia del genere e se oggi avessi quell’età sentirei la stessa cosa. Io a dodici, tredici anni l’ho elaborata come una crisi della crescita, l’angoscia di diventare grande e di conformarmi alle aspettative della società che per le ragazze a mio avviso sono fortemente oppressive. Forse oggi penserei altro, la elaborerei come l’oppressione del binarismo di genere, ma allora me la misi via così e ora mi sento fuori tempo rispetto a queste istanze».
Graziella: «Se io avessi vent’anni investirei nel movimento LGBT+ e queer? Non lo so. Nei miei 25 anni ho investito lì, ma adesso quant’è dirompente mentre tutto il mondo occidentale fa pinkwashing? Non è la mia storia. La battaglia grossa torna a essere la battaglia di classe, il movimento LGBTQ+ in qualche maniera è stato addomesticato. Io non sono mai stata addomesticabile. Facciamo Breccia era fare qualcosa di non addomesticato ed è valso il prezzo che ho pagato.
Tu l’hai capita la sofferenza, non è stata una cosa leggera per me, però ci stava. La cosa peggiore ma anche la più logica è che questo dolore arrivasse da compagnə.
Se tu accetti di spenderti al 100% per quello in cui credi, prima o poi paghi il prezzo, non ti arriva un seggio in parlamento. Nel mio percorso c’era solo la soddisfazione di fare quello che volevo, nonostante dicessero che sbagliavo, che ero matta. Io ho rotto qualcosa. In tanti negli anni Settanta e Ottanta abbiamo rotto qualcosa e il mondo è cambiato.
Mi immagino la vita di una lesbica di 16 anni oggi e penso ai miei 16 anni: credo di aver fatto la mia parte. È valsa la pena vivere per questo. Oggi non avrei altrettanto orgoglio e soddisfazione. Quando ho capito quanto poteva essere dirompente presentarmi pubblicamente come lesbica, ecco, lì volevo arrivare, quello volevo fare. Io auguro a chi ha oggi 16 anni di trovare una causa altrettanto dirompente».
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