Rivolta Pride e Polis Aperta: riflessioni sul movimento LGBTI+

A poco più di un mese dalla celebrazione del Pride bolognese, è necessario riprendere i temi scaturiti dal confronto-scontro tra chi ha organizzato la manifestazione e Polis Aperta – Associazione LGBTI forze armate e polizia, per non arrendersi alle polarizzazioni dei social e perché nell’attivismo non bastano le polemiche prêt-à-porter: meglio entrare dentro le contraddizioni e viverle fino in fondo. 
Per temi caldi occorrono menti fredde, e ripartire da zero: i toni smargiassi delle verità assolute hanno travolto il senso e gli obiettivi sia del percorso intrapreso dal Rivolta Pride sia dell’azione di Polis Aperta; esistono, invece, dei punti importanti che è bene fissare, comunque la si pensi.

Rivolta Pride

Quello del Rivolta Pride è un percorso iniziato nel maggio del 2021 quando, in occasione dell’affossamento del DDL Zan, i movimenti LGBTI+ locali e nazionali sentono il bisogno di ritrovarsi per occupare insieme lo spazio pubblico. Sotto l’arco politico di #moltopiùdizan, varie realtà bolognesi, diverse tra loro per orizzonti e pratiche politiche, riprendono a dialogare sistematicamente, per la prima volta dopo la conclusione dell’esperienza della Favolosa Coalizione.

«Le politiche LGBTI+ del tutto appiattite sul dialogo con le istituzioni, così come la loro controparte, ovvero le modalità che prevedono un’assenza totale di dialogo con le istituzioni, hanno fallito. Evidentemente questi due modelli da soli non stanno funzionando ed è da questa considerazione – sulla quale c’è concordia tra le realtà che compongono il Rivolta Pride – che è nata la volontà di fare rete», sostiene Camilla Ranauro, attuale presidente del Cassero e già coordinatrice logistica dei Pride bolognesi del 2018 e del 2019. Dal primo esperimento di piazza, il confronto si è progressivamente allargato a vari collettivi e alla quasi totalità delle realtà associative che componevano l’ex Comitato Pride, arrivando così a organizzare gli ultimi due Pride della città in modo autonomo, autorganizzato e aperto.

Camilla Ranauro attuale presidente del Cassero LGBTI+ center

La modalità che si è data questa esperienza è quella assembleare, al fine di garantire l’attraversabilità del processo alle associazioni, alle realtà che non si riconoscono nel principio di rappresentanza e alle singole persone che desiderano parteciparvi. Un processo complesso ma flessibile, capace di garantire una pluralità di punti di vista tra cui fare sintesi attraverso il consenso. Il manifesto politico prodotto nel 2022 è derivato da quello degli Stati Genderali, una mobilitazione nazionale promossa da diverse realtà locali, tra cui lo stesso Rivolta Pride, Palermo Pride, Torino Pride e movimenti romani, che nasce l’11 dicembre a Roma per continuare la propria elaborazione politica nelle tappe di Bologna e Palermo, in attesa del prossimo appuntamento a Torino. Il manifesto che gli Stati Genderali stanno costruendo è una piattaforma politica che tocca nove macroaree le cui istanze sono intersecate secondo il metodo dell’intersezionalità. Il documento politico del Rivolta Pride, dunque, non promuove solo rivendicazioni locali ma porta un senso d’urgenza più ampio, l’esigenza di un rinnovamento totale dei temi e delle strategie politiche messe in campo fino a ora dai movimenti LGBTI+.

Polis aperta

Simonetta Moro, ex presidente dell’associazione Polis Aperta

Polis Aperta è un’associazione di volontariato costituita nel 2005 su spinta della European LGBT Police Association (EGPA) – organizzazione transnazionale la cui mission è quella di creare una rete tra persone LùGBTI+ appartenenti alle forze dell’ordine nei vari Paesi dell’Unione Europea – che intreccia il proprio operato con il lavoro dell’Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori. Simonetta Moro, presidente dell’associazione dal 2012 al 2018 e ora consigliera di direttivo, lavora nella polizia locale bolognese, è madre, lesbica e psicoterapeuta.
Ci racconta che «Polis Aperta non è nata all’interno delle istituzioni o all’interno dei movimenti LGBTI+ ma su spinta della EGPA» ed è forse per questo che si distingue da tutte e due le dimensioni cercando, però, un continuo scambio con entrambe.

Alessio Avellino, attuale presidente di Polis Aperta

Le azioni dell’associazione si basano sul principio della visibilità positiva: partendo dal coming out, lavorando all’interno delle forze di polizia per sostenere colleghə nello stesso percorso, agendo su un ambiente refrattario alle diversità di genere e di orientamento sessuale. «Polis Aperta è nata perché c’era una necessità, un bisogno», spiega Alessio Avellino, attuale presidente dell’associazione, dottorando in scienze sociali e primo poliziotto trans* dichiarato in Italia, «se fosse andato tutto bene nel nostro ambiente di lavoro l’associazione non sarebbe mai nata e non avremmo avuto bisogno di rivendicare le nostre identità all’interno delle forze dell’ordine. Anche questo è dare voce alle persone LGBTI+: arrivare in commissariato e trovare me o trovare qualsiasi socio di Polis Aperta o persone colleghe che hanno incontrato la nostra associazione è importante, perché anche i miei colleghi, vivendomi, hanno fatto un percorso di autodeterminazione e consapevolezza».
Il terreno d’elezione per Polis Aperta è quello della formazione alle stesse forze dell’ordine, che rappresenta la possibilità di creare degli spazi di contatto con le istanze LGBTI+ e della parità di genere, e si concretizza anche nella strutturazione di percorsi dedicati alle tecniche operative per la prevenzione e la gestione dei crimini d’odio. Contemporaneamente, lo sforzo dei membri dell’associazione – un’ottantina in Italia – è quello di lavorare sui territori per entrare in relazione con le comunità LGBTI+ locali, conoscerle, farsi conoscere e instaurare legami di collaborazione. 

Vengo anch’io, no tu no

La vicenda si apre con due prese di posizione pubbliche e non in dialogo tra loro: da un lato l’adesione di Polis Aperta al Rivolta Pride, tramite una grafica promossa dai canali di comunicazione dell’associazione, dall’altro un’impattante smentita tramite i social della rete bolognese.

Babs, attivista del Laboratorio Smaschieramenti (Foto di Mattia Valentini)

«Sicuramente c’è stata un’ingenuità perché mancavamo da un po’ da Bologna», spiega Moro «non avevo capito che c’era una situazione diversa dalle altre città. Mi rendo conto adesso che la nostra adesione è stata letta come una provocazione, se avessimo captato questa cosa sicuramente avremmo fatto un percorso. Noi abbiamo sempre cercato un dialogo, anche con le realtà che ci erano più ostili, quindi non avrebbe avuto alcun senso rifiutarlo proprio in questa occasione». Babs – attivista del Laboratorio Smaschieramenti, persona non binaria, tranfemminista queer e insegnante di filosofia e storia – sostiene che quel “NO” posto sopra alla grafica di Polis Aperta «è stato molto avventato, avremmo dovuto e potuto ragionare di più; allo stesso tempo era una risposta a un comunicato altrettanto avventato che metteva insieme Pride molto diversi, percorsi estremamente diversi e, in qualche modo, lasciava intendere che non ci fosse un vero approfondimento dall’altro lato rispetto a che cosa fosse Rivolta Pride e che cosa chiedesse».
Da quel momento si è aperta una discussione in seno ai movimenti LGBTI+ divenuta presto di carattere nazionale, discussione feroce in cui la vicenda è stata spesso letta con lenti non tridimensionali, cancellando la complessità vitale a cui questo dibattito richiama tutte noi. Ne è convinta Ranauro, la quale riconosce che «la responsabilità che ha avuto il Rivolta Pride è stata quella di aver suggerito una chiave di lettura banale e molto riduttiva della posizione dello stesso Rivolta Pride rispetto a Polis Aperta: quel “NO” ha incanalato il dibattito sul binario inclusione/esclusione che chiaramente non ha alcun senso per la nostra comunità».

Entrare nella complessità

La richiesta fatta a Polis Aperta dal Rivolta Pride è stata quella di abbandonare, in occasione del Pride del 25 giugno, i simboli che richiamano esplicitamente l’istituzione della polizia e delle forze armate.  Il senso di questa richiesta ha una duplice radice. In primo luogo, la costruzione del Pride bolognese si è configurata come un percorso realizzato anche con persone migranti razializzate, lavoratorə del sesso, carcerate trans* ed ex carcerate: soggettività che hanno sperimentato l’oppressione da parte della polizia, intesa come istituzione nel suo complesso. In secondo luogo, nell’ultimo anno e mezzo, il Rivolta Pride si è interrogato sulla questione della violenza, dedicandovi anche una specifica assemblea pubblica in cui le partecipanti hanno portato le proprie esperienze; tra queste, non poche sono state le testimonianze di rivittimizzazione proprio all’interno della relazione con le forze di polizia. «Questo per me ha un grosso valore ma, allo stesso tempo, chiede una cura rispetto all’organizzazione dello spazio pubblico intorno a queste persone che hanno effettivamente aperto il corteo del Pride», argomenta Babs, «questa cura per noi era chiedere che non vi fossero simboli o slogan che richiamassero direttamente alla presenza delle forze dell’ordine. Secondo me, noi dobbiamo esercitare empatia se vogliamo portare avanti delle lotte ed esercitare empatia significa anche, alle volte, saper fare un passo indietro e lasciar parlare le altre e gli altri, perché abbiamo molto da imparare da chi è in condizioni di marginalizzazione».

La richiesta di abbandonare, per un giorno, i vessilli delle istituzioni, è stata rivolta dalle organizzatrici del Pride bolognese anche a partiti politici, organizzazioni sindacali e altre realtà sostenitrici. Richiesta fatta sempre nell’ottica di denunciare un sistema di violenza istituzionale che è intrinseco all’organizzazione sociale in cui siamo immerse e che, dunque, agisce a tutti i livelli dell’architettura del paese. Ne è consapevole anche Emily Clancy, vicesindaca di Bologna e assessora, tra le altre cose, alle Pari opportunità, differenze di genere e diritti LGBTI+. Clancy, in risposta all’interrogazione della consigliera comunale Zuntini di Fratelli d’Italia, ha infatti affermato: «Lei mi chiede se è grave e inaccettabile indicare le Forze dell’Ordine come un’istituzione e un luogo di riproduzione della violenza sessista, omolesbobitransfobica, abilista e razzista. Ebbene, mi corre l’obbligo di premettere che non credo di conoscere istituzioni che non lo siano».
Anche Avellino riconosce il ruolo che la violenza sistemica gioca in tutte le amministrazioni pubbliche, dalla polizia all’università, dalle motorizzazioni ai tribunali, dagli ospedali agli uffici comunali, ma vuole mettere una cesura netta tra questa e Polis Aperta. «Le amministrazioni pubbliche devono essere riformate nella loro totalità», afferma, «noi prendiamo totalmente le distanze da chi agisce violenza all’interno delle forze dell’ordine ma non bisogna confondere le persone di Polis Aperta con i rappresentanti dell’amministrazione pubblica. Noi prendiamo le distanze da qualsiasi forma di violenza, questo deve essere chiaro, e non è nostra intenzione negare che negli anni vi sia stata una responsabilità delle forze dell’ordine e delle forze armate in merito alla violenza sistemica; c’è un’intera letteratura a narrarlo, anche in ambito accademico. Non ci riconosciamo in quel tipo di violenza ma non possiamo prenderci la responsabilità di cose che vanno molto oltre noi». L’impegno di Polis Aperta, prosegue Avellino, è proprio quello di aprire un dialogo per decostruire la violenza esistita e per far sì che che le cose possano cambiare per tutte le persone, anche per quelle soggettività razzializzate, prive di documenti o sex worker: «Nessuno ha mai messo in dubbio la veridicità di queste esperienze e l’autenticità di queste persone, se negassimo i loro vissuti, la nostra associazione non avrebbe ragione di esistere».

Dunque, il tema profondo è ben lontano dalle griglie dell’inclusione e dell’esclusione, termini che meriterebbero un approfondimento a parte, data la risignificazione politica che di essi hanno fatto i movimenti LGBTI+. Il confronto, avviato ma da riprendere, pone, da un lato, la questione della consapevolezza che abbiamo della violenza sistemica in cui siamo immerse e, dall’altro, quella del riconoscimento del lavoro che ognuna di noi fa per cambiare questa condizione, anche all’interno delle istituzioni stesse.
Un dialogo che chiama in campo in maniera trasversale anche due concetti importanti per le nostre comunità: quello di safer space, ovvero come organizzare uno spazio pubblico che sia il più accogliente possibile per le soggettività che lo attraversano, e quello di privilegio, o, meglio, della capacità di avere consapevolezza di come ci posizioniamo all’interno della società.

Smarginature

C’è molto di cui parlare, penso sia nostro dovere stare seriamente nell’ombelico della complessità e riprendere questa ricchezza di posizioni che è ossigeno. Occorre farlo nel mondo reale, nei luoghi del confronto che ci diamo come comunità, non dietro le tastiere dei computer.
Quello della presenza della polizia nei Pride è un tema che attraversa il mondo e che produce risposte diverse da nazione a nazione, spesso mutevoli nel tempo anche all’interno di uno stesso Paese. A pochi giorni dal Rivolta Pride, per esempio, è arrivata la notizia che il London Pride ha optato per soluzioni simili a quelle bolognesi; va sottolineato che, nelle altre nazioni, è la polizia come istituzione a sfilare e non associazioni come Polis Aperta.
Non va dimenticato che, in Italia, è stata proprio Bologna a porre questo tema per la prima volta e, indipendentemente da come la si pensi, ciò è stato possibile grazie all’esperienza politico-laboratoriale del movimento bolognese; Bologna ha impattato su di un nervo scoperto perché non c’è una sintesi pacificata sul tema della polizia e dell’esercizio della forza.

Va ricordato, infine, che negli stessi giorni in cui ci confrontiamo su questi temi, il Ministero dell’Interno compie una discriminazione di Stato nei confronti di tutti i corpi non conformi, impedendo loro di accedere ai concorsi pubblici per entrare in polizia, inserendosi pienamente in quel filone di violenza istituzionale di cui abbiamo scritto.
Ci sono dialoghi complessi da realizzare e spero si apra presto uno spazio autentico di confronto, nonostante le molte bocche che soffiano sul fuoco della polemica, accontentandosi del fumo e dimenticando l’arrosto. Per conto mio, anche solo conducendo le interviste che mi sono servite per scrivere questo articolo, sono entrata in contatto con posizioni sfumate: non stanze chiuse ma vasi comunicanti, persone salde nelle proprie convinzioni ma tese al confronto con chi è altro da sé. In merito a quanto è accaduto e sta accadendo sono state prodotte molte risposte ma poche domande. Penso, al contrario, che dobbiamo continuare a porci l’un l’altra interrogativi non banali, negoziando insieme le nostre verità; provandoci capiremo quanto i movimenti LGBTI+ siano maturi per affrontare le sfide che un presente buio ci sta mettendo di fronte.

Foto in evidenza di Francesco Mancinelli