Orientamento e identità di genere dentro e fuori l’armadio: un’icona punk-rock italiana intreccia musica, look e liberazione sessuale
di Helena Velena
Tutte le scene musicali alternative hanno sempre proposto un proprio look specifico, con abiti de rigoeur e acconciature portate alla ribalta.
Il tutto – anche se magari rendeva più appariscenti i maschi, vedi ad esempio il chiodo, il giubbotto di pelle per rockers e in parte rockabilly – rientrava sempre nella rigida norma di genere. Abbigliamento maschile rigorosamente diverso da quello femminile, tenendo ben vivi gli stereotipi di genere, seppur cercando di mostrare un qualche tipo di carica ribellistica e di insofferenza alle regole. Si prendano gli skinhead – e qui non voglio discutere la deriva politica che moltissimi di loro hanno avuto successivamente –: i maschi avevano e hanno quel tipico look supermacho rapato, ma la rapata si accompagna a una cornice, una sorta di cordoncino di capelli più lunghi, a volte pure colorati, per le femmine.
È solo con la cultura hippie che arriva qualcosa di davvero devastante rispetto alla norma di genere: il look unisex e i capelli lunghi anche per i maschietti, cosa che alle fine degli anni ‘60 e per parte dei ’70 era davvero urticante per le norme puritane e conservatrici del buoncostume.
In realtà, come spesso è accaduto, l’Italia ha fatto eccezione: la diffusione di queste scelte stilistiche fu ridotta, a parte diverse bands progressive, una su tutte Il Balletto di bronzo, il cui leader Gianni Leone toccava tematiche “frogie” praticamente a ogni concerto. Da noi i primi ribelli i capelli li portavano più che altro a cespuglietto mosso, un pò lunghetti ma naturali.
In Inghilterra, specialmente a Londra, fu invece tutta un’altra cosa. Portare i capelli lunghi e vestirsi stravaganti, cioè liberarsi dall’anonimato dei vestiti marroni e scrollarsi di dosso anche l’omologazione pseudoproletaria dei blue jeans, significò non solo camicette di materiali più leggeri e femminili, ma anche decisamente multicolori, psichedeliche, con pattern etnici e multicolor.
Questo permise una cosa assolutamente incredibile per l’epoca, cioè il fare il proprio coming out attraverso la musica. Andare a un concerto di Bowie a Londra all’epoca Ziggy significava trovare uno spettacolo ancor più stimolante tra il pubblico che non sul palco. I maschi gay potevano giocare col look, colorarsi i capelli, truccarsi in pubblico, e accedere alla possibilità di esprimere liberamente la propria sessualità, perfino rimorchiando finalmente altri uomini.
Velvet Goldmine, con pure una favolosa e sessuatissima performance di quelli che sarebbero poi diventati gli Stooges di Iggy Pop, è un assoluto must per quanto riguarda l’uscire dall’armadio infilandosi in sale da ballo e locali rock.
In fondo tutto ciò che diede origine alla scena glam è in realtà più merito di Marc Bolan che di Bowie e gli altri. Bolan, piuttosto di recitare un personaggio incarnava tutta la naturale spontaneità dell’essere androgino e oltraggioso, oltre ad avere una voce so sexy. Il Glam espresse poi una moltitudine di gruppi e artisti, da Jobriath, il primissimo gay dichiarato, poi morto di Aids, gli influentissimi e seminali New York Dolls, i bowiani Mott The Hople (Bowie scrisse per loro alcuni pezzi niente male), gli immensi – sebbene etero – Sweet e tantissimi altri, incluso il Lou Reed delle origini.
Finita l’era glam e i favolosi ‘70s, nel riflusso buonista e reazionariamente new romantic (benché largo spazio fu dato ai gay mutati o meno, tra cui Steven Strange dei Visage), la torcia dell’ambiguità sessuale fu portata avanti quasi solo dai gruppi metal col neoglam americano: Motley Crüe e Poison tra tutti, e l’hair metal, che produsse un rovesciamento di prospettiva incredibile perché generò un’incredibile numero di bands di sole donne (in genere di scarso successo), che copiavano il look maschile in voga nel genere: heavy make up, pantaloni aderenti di pelle nera o latex, capelli biondi bleeched e cotonati. Una nota di merito inoltre va ai Judas Priest, il cui cantante Rob Halford, poi dichiaratosi gay, portò nel metal il look Bdsm, destinato a rimanere in svariate scene musicali estreme.
Ma la sovversione totale la porta il punk. E non si tratta più soltanto del look dei musicisti o di dichiarare il proprio orientamento. Il punk, anticipando la logica metrosexual, crea un contesto genderfuck, per uomini e donne, etero e gay o inbetween.
Dal 1976 enorme spazio se lo conquistano le donne: non più solo cantanti bellocce, ma musiciste in gruppi misti, spesso anche chitarriste soliste. Dalle fondamentali Slits (le “fessure”), alle anarcofemministe Poison Girls, le hardcore Iconoclast, le eclettiche X-ray Spex, le protelesbiche Gymslips, con anche una batterista nera, e ancora Rubella Ballett, Hagar The Womb, Girls at our best! o le più wavish Raincoats. Moltissimi sono i gruppi completamente femminili o a predominanza female, che danno un tocco squisitamente altro al loro tipo di punk, con pure testi di tematiche decisamente femminili e femministe.
L’aspetto fondamentale del punk sta nella sua visione anarchica che permette ogni forma di espressione della sessualità, del proprio essere, del proprio look, elevando l’aspetto maschile per la prima volta a qualcosa di estremo, elaborato: bastino i mohicani e i capelli crazy colors, i bondage trousers strappati con sotto le calze a rete, l’abbondanza di accessori di ogni tipo, meglio se riciclati, di uso, comune deturpati. ID, una delle più prestigiose riviste di moda oggi, nasce appunto fotocopiata, fotografando tra gli altri i punk per strada e chiedendo loro quanto pochissimo hanno speso per vestirsi. Ma anche la sessualità viene spesso usata come provocazione: a partire dal nome stesso per i Sex Pistols, o i female fronted Penetration, o ancora i Raped (stuprat*) dal look decisamente TG, il cui singolo d’esordio, Pretty pedophiles, fu sequestrato e bruciato, e successivamente il batterista giapponese fece la transizione.
Alla fine, su tutti, ne ricordo volentieri due. I Plasmatics, della oltraggiosissima ma power feminist ex pornstar Wendy Williams: estremi nella musica metalcore, nel look rabbiosamente genderbending e violentissimi nelle performance sul palco. E Wayne County, proveniente dalla Factory di Andy Warhol, che portò in Uk uno spettacolo teatrale talmente sconvolgente da convincere un biondocrinuto Bowie a tagliarsi i capelli e reinventarsi. Il signor Wayne, in periodo punk poi transizionato a Jayne County, scrivendo testi sessualmente oltraggiosi e liberatori, determinò il rapporto tra punk e sessualità fortemente espressa non solo sul palco, ma nella vita di ogni giorno. Questa estrema libertà genererà poi scene come quella queercore, ma anche generi musicali dal gothic alla darkwave, in cui l’ambiguità frocia la fa spesso da padrona. Senza dimenticare il Visual K giapponese, i cui membri delle bands, pur suonando un metal piuttosto blando sono tutti bellissime creature transgender, ultrasexy e iperfemminili.
Continua… Decisamente!
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