di Antonia Cassoli, Ren Arman Cerantonio e Valentina Pinza

Identificare e creare ex novo falle nel sistema, occuparci dei punti di inciampo, «soffermarci sullo squarcio, la falla appunto, il momento esatto in cui il discorso pubblico si incrina, arresta la sua enfasi e inizia a balbettare», come dichiarava il primo editoriale del nostro giornale, sono le pratiche fondative che da sei anni e mezzo guidano il lavoro della redazione della Falla. 

La rinuncia inevitabile – ci auguriamo momentanea – alla carta stampata non ha cambiato la nostra vocazione, piuttosto ci ha spalancato ancor di più lo sguardo sugli spazi di attivismo e di informazione sul web

Spazi che come singolə abbiamo, volenti o nolenti, dovuto imparare ad abitare massivamente nel corso degli ultimi 14 mesi. 

Chi non ha avuto, in questo periodo, l’impressione che sui temi a noi cari – in primis le questioni LGBT+, i femminismi, l’intersezionalità delle lotte – la velocità di elaborazione e la visibilità abbiano goduto di una fortissima accelerazione, di un balzo in avanti?

In una recente intervista, Elena Monicelli ci ha detto: «Per quello che mi riguarda, la resistenza oggi è resistenza alla semplificazione».

E il rischio di questa accelerazione è infatti la semplificazione. Per sua natura l’umanità sarebbe, a  differenza di un computer il cui funzionamento binario è composto da due cifre, portata a moltiplicare e a stratificare il pensiero. Stiamo, dunque, trasformandoci in quelle stesse macchine che usiamo per comunicare?

Nella semplificazione binaria il pericolo è dietro l’angolo, lo dovremmo ben sapere. La semplificazione è lo strumento di elezione del patriarcato, si radica e si alimenta in un sistema che dell’appiattimento delle esperienze ha fatto la sua arma più tagliente. La normatività (etero, cis, bianca, allo, abile, ecc…) non aspetta altro che l’abbandono della complessità che ci contraddistingue.

Bollare come “fascista” un qualunque – o qualunquista – pensiero reazionario non gioca a nostro favore, bensì annacqua l’antifascismo. Opporre il femminismo della quarta ondata, la nostra, a quello della seconda significa sia rinunciare alle nostre radici, sia illuderci che il nostro presente non potrà essere messo in discussione in futuro. Così come considerare Terf tutte o tante femministe di generazioni precedenti alla nostra è non capire che alcune di loro sono spaventate e sentono la necessità di continuare a usare spazi e linguaggi familiari.

Ridurre le nostre identità a delle lettere dell’alfabeto da sommare con l’obiettivo di rappresentarci tuttə potrebbe purtroppo rivelarsi escludente. E così via.

Per questo, con i nostri articoli, con le persone a cui scegliamo di farli scrivere, con il nostro impegno quotidiano e volontario che spesso supera per tempo e fatica quello con cui ci guadagniamo da vivere, l’esercizio che vogliamo portare avanti è la resistenza alla semplificazione.

Interrogandoci sempre più e più volte e moltiplicando le voci per opporre la nostra mente all’esclusione e allenarla alla complessità, lì dove un inciampo è necessario, dove la crepa va allargata e la falla praticata con decisione, abbiamo il dovere di creare anche i presupposti per costruire ciò di cui abbiamo più bisogno: il ponte per andare oltre.