«Io non ho niente contro i gay», ti risponde il ragazzo della tua amica dopo uno dei tuoi primi coming out. «A me danno fastidio le checche e tu non lo sei». Annuisci un po’ dubbioso, tutto sommato ti sta dicendo che non ha nulla contro di te. Ti spiega che ci sono gli omosessuali, persone comuni che si comportano normalmente, e poi ci sono le checche, quelle insopportabili che parlano, si muovono e si vestono in maniera effeminata e hanno sempre qualcosa da ostentare. Tu, col tuo maglioncino di lana buona e la camicia stirata, chiaramente non lo sei e non ti senti di replicare per non creare casini con le tue amiche, anche se ascoltare quella parola ti turba non poco.

Hai quindici anni e ti ritieni tutto sommato fortunato: frequenti una città borghese come Salerno, un liceo che sembra essere ancora fresco di riforma Gentile dove – è risaputo – «vanno i figli di papà». Ti sei reso conto già da qualche anno di essere gay – il solito cliché della cotta per il migliore amico di cui poi hai perso i contatti – ma non senti il bisogno di ostentare nulla. Sei più che contento di indossare i vestiti da bravo ragazzo che ti compra tua madre e di muoverti esclusivamente negli ambienti «per bene». Non senti il bisogno di fare coming out, se non con pochə amichə, e non hai manco un ragazzo da dover dissimulare. Non ti hanno mai bullizzato per quello che sei, non ti hanno emarginato o, peggio ancora, malmenato, e se ti hanno chiamato ricchione qualche volta era solo un generico insulto che si usa contro i ragazzi.

Sei fortunato, quindi, sia perché il tuo ambiente privilegiato non costituisce una minaccia seria (almeno non fisica), sia perché non sembri gay, o se un po’ lo sembri comunque lo fai in una maniera accettabile. Certo, stai sempre con le ragazze ma è perché sei un secchione come le tue amiche e loro sono nerd come te. Non nascondi niente, ometti soltanto di essere omosessuale, perché poi per il resto sei una persona «normale» e ti senti a posto così. O forse non tanto.

In realtà le checche ti mettono a disagio. C’è un ragazzo in un’altra classe che dicono sia gay. Lui viene a scuola con gli stivaletti col plateau, indossa vestiti eccentrici e si muove «come una femmina». Non hai niente contro di lui, anzi, sotto sotto lo stimi per il suo coraggio e cerchi di difenderlo dalle maldicenze nei limiti della tua autoconservazione. Però diventi irrequieto in sua presenza, come per una sorta di imbarazzo empatico. Perché non te ne rendi conto ma hai paura di essere associato a lui, che nella sua immagine lə altrə riconoscano anche in te una checca.

Questo, assieme a tanti altri, è un segnale che ignori, finché non ti trasferisci a Bologna. Andare a vivere da solo per l’università è esattamente come nel flashforward di Tuo, Simon sulle note di I wanna dance with somebody: appendi la tua bandiera pride sopra il letto, vai alle prime serate del Cassero, conosci persone dalle più disparate identità. Ti fai accompagnare da un’amica a prendere uno smalto perché ancora ti vergogni ad andare da solo e da lì, pian piano, sperimenti con il make-up. Sei ancora a tuo agio con i maglioncini pastello di tua madre, ma ti piacciono anche i crop top e le salopette e, a colpi di pennello da ombretto, esplori l’espressione di genere. Ti rendi conto del peso che ti sei lasciato dietro solo quando ne sei finalmente libero.

Hai ancora tanto da capire, ma ora un po’ di quello che hai imparato lo porti anche giù. E quando a Salerno un amico di amici, dopo averti chiesto che facoltà frequenti, osserva con sguardo di complicità che a lettere a Salerno «sono solo ragazze, pochi maschi e tanti froci», puoi fargli andare di traverso il drink ribattendo serenamente che, invece, «a Bologna siamo tutte checche».

Immagine di copertina realizzata da Davide Proto (foto del liceo da exallievitasso.it)