IL COGNOME PATERNO È UN RETAGGIO PATRIARCALE ANCHE PER LA CORTE COSTITUZIONALE

L’attuale sistema di attribuzione del cognome al figlio è stato definito in una recente ordinanza del vicepresidente della Corte Costituzionale Giuliano Amato il «retaggio di una concezione patriarcale della famiglia» e frutto di una «tramontata potestà maritale non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore dell’uguaglianza tra uomo e donna». 

La Corte Costituzionale ha una lunga storia di vani richiami al legislatore, finalizzati a invitarlo a modificare l’attuale ordinamento. Le pronunce della Consulta iniziarono negli anni ’70 e vennero ribadite negli anni, soprattutto nel 2016 con una sentenza, anch’essa firmata Amato, che prevedeva l’incostituzionalità dell’attribuzione automatica del cognome paterno al figlio legittimo, nonostante l’esistenza di un accordo tra i genitori volto ad aggiungere a quello del padre il cognome anche della madre. 

Ora la Corte è stimolata dal quesito posto dal tribunale di Bolzano, relativamente alla costituzionalità dell’art. 262 c.1 del Codice Civile, che stabilisce che il figlio nato fuori dal matrimonio non possa assumere solo il cognome materno, nonostante un accordo tra i genitori in tal senso. Ma la Corte è andata oltre questo stimolo, decidendo di discutere se sia costituzionale assegnare solo il cognome paterno sempre e non solo nel caso in cui i figli siano nati fuori dal matrimonio e siano stati riconosciuti (in riferimento agli art. 2,3 e 117 c.1 della Costituzione in relazione anche agli art. 8 e 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali). 

Attendiamo che il legislatore finalmente faccia il suo dovere e allinei l’Italia a quanto stabilito dal Trattato di Lisbona, che vieta ogni discriminazione in base al sesso e ponga così rimedio alla condanna già pronunciata dalla Corte di Strasburgo.

A proposito di cognomi della prole, c’è poi una nota di folklore. Il senatore Simone Pillon ha scritto sulla sua pagina Facebook che «il cognome paterno non è da considerare come un retaggio patriarcale ma come il regalo più prezioso che un padre possa fare ai figli. La madre dona il corpo, il padre consegna l’appartenenza ad una storia, ad una comunità, ad una famiglia». Che cosa si intende per donare il corpo? Di che corpo stiamo parlando? Di quello del nascituro o di quello della donna? Sta dicendo che la donna crea materialmente, tramite la sua fisiologia, il corpo degli eredi, che partorendo dà sangue e ossa alla progenie? Oppure parla una donna-corpo o donna-contenitore che aspetta solo di avere l’onore di essere ingravidata da un uomo per avere finalmente una storia, partecipando a quella di lui tramite l’innesto nel suo albero genealogico? Un’immagine di donna-fattrice che non svilisce solo la donna ma anche l’uomo, che è ben altro che uno schizzo di spermatozoi che prolungano un casato e, auspicabilmente, desidera una compagna che sia ben altro di una fattrice o una serva. 

L’irritazione vince la voglia di ignorare tali amenità, soprattutto perché sottendono il ritorno a una società chiusa di pupazzi tutti uguali che non hanno il diritto di poter scegliere di essere ciò che vogliono e di condividere ruoli e oneri familiari, dividendoli come meglio credono. Non è solo una questione di cognome, quello è il minore dei mali. Qui si parla di un’idea di famiglia gerarchizzata, che è ormai una parodia perché non tiene conto che una famiglia è tanto più felice quanto più i suoi componenti sono realizzati e che ignora l’esistenza di una natura, innegabile, per le cui leggi i figli li fa la donna (o le persone dotate di utero) e una cultura, variabile, che ci dice che una volta venuti al mondo questi possono essere educati con identici contributi da parte dei suoi componenti.

Immagine in evidenza da avvenire.it, immagine nel testo da amicopediatra.it