A cinque giorni dalla votazione nell’aula del Senato che ha decretato la fine del Ddl Zan, la sconfitta inizia a sapere di vittoria.
È ancora solo una sensazione, un’acquolina in bocca, ma non ci sono dubbi, lo sentiamo.
Non ha nulla a che fare né con le traballanti spiegazioni sulla mancanza dei voti in aula da parte del partito promotore del disegno di legge, che si riassumono grossomodo in «è colpa di Renzi», mentre abbiamo visto che i conti dicono anche altro, né con le inadeguate dichiarazioni d’intenti post voto dello stesso partito.
La tagliola che si è abbattuta il 27 ottobre sul sesto tentativo in venticinque anni di legiferare in materia di discriminazione per orientamento sessuale e identità di genere, includendo anche le discriminazioni nei confronti delle persone disabili, è stata l’ennesima metaforica ghigliottina che ha separato il Paese reale dalla sua classe politica.
Sono più di 50 le piazze chiamate dalle associazioni e dai collettivi LGBTQ+, dalle transfemministe di Non Una Di Meno e dalle reti cittadine e nazionali che si occupano di diritti.
Da giovedì 28 ottobre per tutto questo lungo fine settimana che continua anche sul festivo di oggi, i presidi a favore di una legge che combatta l’odio e le discriminazioni nei confronti delle persone LGBTQ+ e disabili non si sono mai fermati e sono in continuo aggiornamento, promettendo di durare oltre questi giorni caldi.
Non solo grandi città come Milano, Roma, Bologna, ma anche piccoli centri da nord a sud, dalla penisola alle isole, Catania compresa nonostante i grandissimi danni dovuti al maltempo degli ultimi giorni, con la mobilitazione in Piazza Università fissata per il 7 novembre.
Il 25 novembre è la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Non è peregrino immaginare che la battaglia per ottenere #moltopiùdizan si unisca alle manifestazioni e agli eventi fissati per l’occasione. Una continuità naturale per una lotta che in quanto a contenuti politici e obiettivi è la stessa e che in una città come Bologna è già realtà, ma la cui intersezionalità non è scontata altrove. L’agenda del movimento LGBTQ+, femminista e transfemminista ha appena cominciato a riempirsi e al primo posto devono esserci il lavoro sulle reti, il reciproco riconoscimento nelle nostre differenze, la capacità di comunicare all’esterno i nostri obiettivi e farli contare. In una parola: advocacy. Se questa sconfitta può essere trasformata in vittoria, se «Vogliamo tutto!» è lo slogan, dobbiamo contare di più.
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