L’anno in cui l’Italia scoprì il femminismo TERF

di Antonia Caruso

Si può dire che quest’estate sia stato il momento in cui il femminismo transfobico si è palesato in tutta la sua discutibile retorica nel panorama virtual-politico italiano. L’ovvio riferimento sono i post con i quali la pagina facebook di Arcilesbica Nazionale ha malamente espresso alcune posizioni politiche transfobiche. Riportabili, volendo, al famigerato acronimo Terf che sta per Trans Exclusionary Radical Feminists, cioè Femministe Radicali Transescludenti. Un termine per noi sicuramente esoterico ma che gira in territori anglofoni già dal 2008.

Le argomentazioni politiche sono molteplici e le loro basi storiche si possono trovare nell’essenzialismo, nel femminismo della differenza e nelle pratiche separatiste. Maschi e femmine sono intrinsecamente ma soprattutto biologicamente diversi. Chi transiziona rimane comunque biologicamente legato/a al sesso di nascita. Non c’è scampo, una donna trans rimarrà per sempre un maschio. E un maschio è sempre portatore di fallo predatorio (cosa che gli uomini trans non hanno). Non a caso il primo post di Arcilesbica riportava e rivendicava politicamente i contenuti della lunga testimonianza in inglese di una donna cis minacciata da presunte rivendicazioni trans che vorrebbero appiattire il concetto di womanhood in una indifferenziazione politica senza senso.

Per arrivare alle teorizzazioni transfobiche femministe, dobbiamo partire dal 1973, praticamente agli albori del movimento. Prima i due eventi concomitanti del Pride di San Francisco: uno in cui erano ammesse le drag e le trans, protagoniste nel 1966 della rivolta alla Compton’s Cafeteria, e l’altro separatista.

Successivamente la cantante folk, trans e lesbica Beth Elliott venne espulsa dal collettivo lesbico Daughters of Bilitis con un’accusa di molestie e l’anno successivo – durante la West Coast Lesbian Conference – venne osteggiata da un altro gruppo separatista lesbico, The Gutter Dykes, con la precisa accusa di essere un uomo che, come tale, lì non poteva stare. La figura pericolosa della donna-non-donna-col-pisello inizia qui.

Ma è nel 1979 che la transfobia femminista viene sistematizzata e teorizzata da Janice Raymond nel libro The Transsexual Empire: The making of the She-Male. Un titolo che già da solo fa tremare per il senso di sovranità illegittima e per l’uso di “she-male”, un modo piuttosto dispregiativo, insieme a “tranny”, per le donne trans. Tra le argomentazioni contenute nel libro: le donne trans hanno vissuto, per non dire posseduto, i privilegi maschili prima della transizione; le persone trans non fanno che rafforzare gli stereotipi di genere; le donne trans si adeguano alla visione maschile del corpo femminile “riducendo le reali forme femminili ad un artefatto, appropriandosi di questo corpo per loro stesse.”

Altro episodio. Nel 1991 la trans Nancy Burkholder viene cacciata dal festival musicale lesbico separatista Michigan Womyn’s Music Festival. Anche lei in quanto trans veniva considerata un uomo e quindi allontanata. Un evento che diede il via alla contromanifestazione di protesta Camp Trans e che ha ispirato un episodio di Transparent (stagione 2, episodio 9).

Ma le teoriche transfobiche includono anche Germaine Greer, l’autrice dell’acclamatissimo L’eunuco femmina. In The Whole Woman, del 1999, rincara la dose sul fatto che le donne trans rimangano uomini, o meglio, uomini mutilati. Stessa posizione di Sheila Jeffreys che in un articolo pubblicato nel 1997 sul Journal of Lesbian Studies, ad esempio, scrive che “la mutilazione di corpi sani e la sottomissione di questi corpi a trattamenti continui e pericolosi per la salute che violano i diritti di queste persone a vivere con dignità nel corpo nel quale sono nate.” Posizioni per certi versi non troppo diverse dalle destre cattoliche, che difendono allo stesso modo la sacralità di un corpo da lasciare intonso e puro.

E tanti cari saluti all’auto-determinazione. Il femminismo Terf italiano riassume e continua quest’atteggiamento penefobico, essenzialista e anacronistico.

pubblicato sul numero 30 della Falla – dicembre 2017