Nella provincia di Bari, fino a qualche anno fa, le persone LGBTQ+ non esistevano. Non frequentavano la mia scuola, non erano sedute al tavolo con me a Natale, non le incontravi la sera tra le strade del paese. Semplicemente, la non esistenza era la loro condizione naturale. Quelle poche che avevano osato esistere avevano la funzione di monito dei rischi dell’esistenza: dal chiacchiericcio all’emarginazione, a mia nonna che mi teneva più stretta quando ci passavano vicino. Chi aveva osato esistere era diventata una creatura di un’altra specie e chi non si sentiva in grado di sopportare quella trasformazione, preferiva di gran lunga non esistere. 

Non esistevo neanch’io. Nella mia timidezza e paura cronica del mondo, quell’esistenza sarebbe stata impossibile e insopportabile. Prestissimo avevo imparato che per me era facile, non esistere. Ho imparato che la legittimità dei miei sentimenti dipendeva dal genere della persona in questione e così la mia vita è andata avanti per anni. 

Nel corso dei millenni il paese aveva anche elaborato una valvola per le esistenze, una catarsi collettiva a cui tuttə erano affezionatə: il carnevale. Un carnevale lungo mesi, momenti in cui era possibile sperimentare e sperimentarsi, in cui era non solo possibile ma anche necessario sovvertire i ruoli, le dinamiche, le relazioni. Era l’esplosione dell’esistenza, pienamente accettata solo perché ben contenuta nel calendario e soprattutto perché non aveva un nome e non poteva in nessun modo essere legata alla realtà. Il personaggio femminile alter ego carnevalesco di uno degli amici dei miei genitori e che ogni anno si esibiva in una nuova performance e raccontava di sé, non era e non sarebbe mai potuta essere una drag. 

Siamo andate via, siamo andate a esistere altrove, a Roma, a Milano, a Bologna, siamo andate a esistere all’estero, perché lì nelle grandi città lontane era più facile distinguere la propria voce da quella del paese, era più facile ascoltarsi e avere coraggio. Quando siamo tornate, quando ci siamo incontrate d’estate in vacanza, ci siamo viste esistere per la prima volta. Abbiamo scoperto di essere state compagne di scuola, cugine, amiche, conoscenti. Eravamo tutte lì, solo che non esistevamo. Davanti a un caffè abbiamo iniziato a parlare delle nostre relazioni, delle nostre identità, mentre giocavamo a trovare le differenze tra il paese che era stato e il paese che è. La pizzeria che non c’è più, il bar storico che ha finalmente dismesso il bancone anni ‘70, il palazzo lasciato a metà che è ancora così, la ragazzina che esiste e sembra vivere bene, e non è sola. Abbiamo visto come negli anni le cose siano cambiate, lente e costanti, come con calma il mare abbia levigato le cozze patelle attaccate agli scogli del passato. È persino nato un collettivo LGBTQ+ a 40 km di distanza. 

Nell’osservare il lento cambiare delle cose, insieme alla contentezza è arrivato il senso di colpa. Avremmo potuto esistere, se solo ne avessimo avuto il coraggio? Avremmo potuto far iniziare questo lento processo un po’ prima? Non lo sapremo mai. 

Andare via per molte di noi è stato necessario per iniziare a guardare le cose dalla giusta distanza.

Eppure ci sembra ancora un po’ assurdo, e bellissimo, tornare a casa e poter finalmente esistere.