di Valentina Pinza e Ren Arman Cerantonio

È della fine di ottobre la notizia del suicidio di Chiara, diciannovenne di Scampia. 

Due anni fa si era rivolta alla Gay Help Line del Gay Center di Roma dopo le ripetute discriminazioni e gli atti di bullismo transfobico subiti a scuola, poi abbandonata. Il percorso di aiuto l’aveva portata in una comunità lontana dalla famiglia che non l’accettava; successivamente, era stata riaccolta a casa dalla madre e dalle sorelle, che nel frattempo erano anch’esse state seguite. Purtroppo, non è bastato.

Digitando su Google «statistiche suicidi comunità trans» il primo risultato è un contenuto sul sito provitaefamiglia.it dal titolo «Transgender: altissimo il tasso di suicidi. E l’omofobia c’entra poco…». Omofobia è tra virgolette. Nel pezzo, strumentale alla narrazione provita, le persone trans* sono appellate indistintamente al maschile e sono citate percentuali senza riferimenti a studi specifici, se non nel caso dei dati tratti dalla ricerca Estimating the risk of attempted suicide among sexual minority del 2018 dell’Università Milano-Bicocca. La tesi è quella del titolo: non sarebbe l’omofobia (ndr. la parola corretta è naturalmente “transfobia”) a spingere una persona trans* al suicidio, ma la sua condizione esistenziale, «lo scriteriato trattamento della disforia di genere e la disinvolta somministrazione della triptorelina». 

Il 20 novembre si celebra il TDoR, Transgender Day of Remembrance, istituito nel 1999 per commemorare le vittime dell’odio e della violenza nei confronti delle persone trans*. Ogni anno snoccioliamo i numeri del lungo elenco mondiale degli omicidi e dei suicidi a sfondo transfobico come i grani di un rosario avvelenato, consapevoli che sono solo una parte di un sommerso ben peggiore e che l’intersezione tra identità di genere, colore della pelle, situazione economica e provenienza, disabilità, produce una condizione di totale fragilità all’interno della società patriarcale.

Cosa manca, almeno qui in Italia? Più o meno tutto. Sconfitto il Ddl Zan che prevedeva a livello legislativo l’aggravante per i crimini con motivazioni omolesbobitransfobiche, la responsabilità della tutela a tutto tondo delle vite delle persone trans* resta nelle mani delle associazioni LGBTQ+ e dei servizi sociali che non hanno le risorse necessarie anzitutto per mappare i dati della discriminazione e mettere in campo delle azioni efficaci di prevenzione, ma nemmeno per occuparsi capillarmente dei bisogni delle persone trans* a violenza subita e, come se non bastasse, anche i servizi disponibili ne posizionano per ultima la tutela. 

I centri che offrono assistenza medica e psicologica alla transizione nacquero per sopperire al rifiuto da parte dello Stato di occuparsi delle necessità specifiche della comunità dopo l’approvazione della legge 164 del 1982. Si delegó alle persone direttamente interessate, ma senza offrire risorse sufficienti e personale competente. Dal disinteresse si sono originate falle alle quali negli anni sono state applicate toppe, per lo più di iniziativa regionale. 

Purtroppo, quegli stessi luoghi che offrono supporto e protezione per garantire il benessere psicofisico della persona reiterano in realtà la violenza sistemica: la maggior parte di loro segue il protocollo O. N. I. G. (Osservatorio Nazionale Identità di Genere), dove sono lə terapeutə a valutare i parametri per i quali un individuo può essere considerato trans*, escludendone l’autodeterminazione. Questi parametri sono stilati interamente da persone cisgenere secondo criteri binari, comprendendo modalità molto limitate di essere trans*. La terapia diventa quindi un terreno di ricatto dove il potere è sbilanciato: unə psicologə è nella posizione di decidere se concedere o meno il diritto alla transizione medica. Inoltre, il personale professionistico al quale è obbligatorio affidarsi si rivela spesso incompetente, diffondendo informazioni scorrette e sminuendo le esperienze dellə pazienti, quando a questə resta la forza di alzare la voce. Insieme all’ostico percorso giuridico per cambiare anagraficamente genere, quello che sembra un diritto – il percorso di transizione – sfrutta la condizione di fragilità insita nella richiesta di supporto. Il sistema alimenta l’isolamento e scoraggia la formazione di una comunità coesa e politicamente consapevole.

Cosa fare, dunque? Riprendiamo un articolo a firma di Antonia Caruso pubblicato sulla Falla nel novembre 2019, Essere vittime, fare le vittime. Considerazioni per un’autodifesa trans, che ci sembra un faro di empowerment per partire da sé stessə e riscrivere il concetto di autotutela: «Transfemminista, globale, verbale, digitale, mediatica […] l’autodifesa è innanzitutto togliersi dalla posizione di vittima e mettersi su una posizione paritaria. Scegliere se e come entrare in un conflitto. Sapere come gestire un conflitto. Creare una nuova narrazione, colpire se necessario. Il tacco lanciato che tanto ci ispira era una reazione, ma poi servono dei piani, delle strategie, delle cose pensate, e dovremmo farlo insieme. Per esempio, Sylvia e Marsha avevano creato S.T.A.R. (Street Transvestite Action Revolutionaries) per assistere le persone trans senza una casa e senza soldi. L’autodifesa va costruita insieme, tanti piccoli saperi, tante piccole pratiche.»

L’auspicio è che non solo le persone trans*, ma tutta la comunità LGBTQ+ – associazioni e gruppi, ma soprattutto persone cis – si faccia carico quotidianamente delle persone al proprio interno più esposte alla violenza con la costruzione di politiche, pratiche e saperi, mettendone la tutela in cima alle proprie agende, facilitandone le politiche collettive, informandosi sui bisogni, lavorando sulla prevenzione della violenza. In una frase: mettendosi al servizio della comunità trans*. Perché limitarsi a contarne e a piangerne le migliaia di morti non è accettabile.

In Italia sono attive alcune casse di solidarietà per persone trans*:
Roma, Guerrilla Transpoetica
Milano,  Marciona

Immagine nel testo da tumblr.com