di Irene Moretti

Il 19 giugno del 2004 indossai uno dei capi d’abbigliamento più fricchettoni che abbia mai posseduto – una salopette di garza color fiore di zucca – e uscii di casa dicendo: «Mamma, babbo, vo’ al Pride». Non ricordo se i miei mi chiesero qualcosa in più di un: «A che ore torni?», però ricordo bene il grande senso di leggerezza che mi procurò pronunciare quella frase e andare a prendere il primo treno per Grosseto.

Il coming out in famiglia era avvenuto qualche mese prima ed era stato rocambolesco, un disastro romantico, sessuale e tecnologico che mi è quasi costato un paio di amicizie: era il 24 febbraio – o forse il 26 – e quella mattina invece di scendere alla solita fermata per andare a scuola chiesi alla mia amica C. di reggermi il gioco. E presi un treno per Roma. Io e i treni per Roma abbiamo da allora un rapporto complicato. Corsi e ricorsi storici. 

Quel giorno volevo vedere la persona che all’epoca mi faceva battere il cuore e mi scatenava gli ormoni. Poi la sfiga. Mentre io consumavo una modesta prima volta in un luogo improbabile il mio 3310 moriva e io non me ne accorgevo. 

Risultato? Una C. in preda a un attacco di panico – scusa C.! – che non sapeva più che dire ai miei che le chiedevano perché il mio telefono fosse sempre spento e una girandola di telefonate ad amiche e amici da parte dei miei. Il mio telefono riprese vita e riuscì a chiamarmi E.; dal tono della sua chiamata capii di essere nella merda: «Dove cazzo sei?». Non riuscii a replicare, il telefono morì di nuovo. Io ero seduta su un regionale strapieno Roma Termini – Pisa Centrale, bagnata fradicia per la pioggia presa e con il cuore che era passato dal battere forte per l’eccitazione della mia prima volta alla paura di cosa mi avrebbe aspettata a casa. Una conoscente, trovata per caso, mi prestò il telefono: il mio «Sto bene, tra due ore sono a casa, il treno è appena partito da Termini» non li rassicurò. 

Passai due ore in preda all’angoscia. Ricordo il viaggio in macchina dalla stazione a casa. Ricordo il silenzio. Pesante. Ingombrante. Una volta a casa la domanda, fatidica, che aleggiava tra le pareti da mesi, anni forse: «Sei lesbica?». Io non ero pronta, nonostante alcune persone sapessero da anni. «Sì». Da allora, e per molti anni a seguire, l’argomento diventò il proverbiale elefante nella stanza. 

Quel 2004 era l’anno della maturità e tra i corridoi della scuola l’outing era pesante. Decisi di fare coming out in grande stile: avrei confermato le voci direttamente all’esame discutendo una tesina intitolata L’eros diverso. Non sono sicura di averne ancora una copia, ne ricordo però la chiusa: «Io non mi sento diversa». Parlava di Maurice, parlava dell’Immoralista di Gide, di Sartre e Huis Clos, di Morte a Venezia e, citando solo di sfuggita Pasolini, parlava soprattutto di Sandro Penna, quello stesso Sandro Penna che la mia professoressa di italiano affermò di non aver mai sentito nominare in vita sua, convincendomi di stare facendo la cosa giusta. Il professore di filosofia, davanti a tutte, mi chiese ridacchiando se sarei andata al Pride di Grosseto. E la classe ridacchiava con lui: «Io vado, e voi?».

Era il mio primo Pride, con il mio coming out in divenire, e per di più si teneva a Grosseto: per me, orbetellana, era quasi un segno. E un sogno: per un giorno, per la prima volta nella mia vita, ero libera di essere me stessa. Ero in mezzo a una moltitudine arcobaleno fatta di persone come me ma allo stesso tempo così diverse per età, provenienza e vissuto. Mi girava la testa: ero ubriaca di suoni, colori e soprattutto di persone. Una sensazione che negli anni successivi ho ritrovato a ogni Pride a cui ho partecipato. Ballando sotto cassa dietro al carro del Cassero decisi che avrei fatto l’università a Bologna.

Così quel 19 giugno del 2004 io e la mia salopette color fiore di zucca salimmo su un treno leggere ma tremanti e tornammo a casa finalmente libere.

foto del Grosseto Pride ©️Giovanni Dall’Orto