Nessuno sa nel 1985, quando ho 18 anni, chiuso in una macchina, cosa sia un coming out, perciò nessuno sa di farlo quando lo fa. O perlomeno io, allora, non so che molti anni dopo ci avrei scritto un articolo. Sicché a quel tempo, quando succede, fai coming out a tua insaputa. In quegli anni il mondo sospetta da molto che io sia un finocchio, per una serie di stereotipi a cui corrispondo perfettamente: amo i profumi, i vestiti firmati (sono nei favolosi anni ’80 e mi adeguo), ballo da solo in camera mia, vado tutti i sabato in discoteca, ho più amiche che amici; ma di una faccenda così delicata come la sessualità non si parla molto, a meno che tu non sia una di quelle coraggiose che hanno da poco fondato il Cassero e fanno i girotondi per strada. 

C’è la british invasion, l’onda dei gruppi musicali inglesi in cui l’omosessualità è palese o simulata. Tondelli ha scritto dei suoi libertini, Leavitt parla la lingua delle gru. Cominci a leggere la parola gay quando raramente La Repubblica accenna a un movimento chiamato “Fuori!”, ma Torino è troppo lontana; oppure quando noti, con occhi lubrichi, una rivista chiamata Babilonia nascosta in edicola come un articolo di nicchia. Comprarla è una dichiarazione all’edicolante. 

Iscriversi all’Arcigay non si fa «perché ti fanno una tessera che vuol dire essere registrati, immatricolati». Per fortuna però, qualche anno prima – sono sui 14 anni – in classe con me nell’austero Liceo classico, c’è un amico che mi assomiglia negli stereotipi, che mi capisce prima che io stesso lo faccia, perché prima di me ha capito sé stesso e perché è parecchio più svelto. Lo perderò presto. Ma io capisco, anni dopo, che è una fortuna che lui fosse lì, in quella classe, perché almeno eravate in due. Invece, messo il nasino fuori, scopri che siete in mooolti di più. 

I malumori, le giornate storte, l’insoddisfazione perché manca qualcosa, sono dovute al fatto che ti manca qualcuno. Il coming out con me stesso è, in quel momento, il più importante. 

Poi arrivano altri amici. «Vieni, cambiamo discoteca, andiamo a Bologna al Kinki». Una discoteca scavata nel sottosuolo e ammantata da una leggenda di oscura inaccessibilità. Cosa succederà mai là sotto… Niente, la gente balla e si conosce. Dopo qualche volta una sera, intrappolato in macchina, gli amici mi estorcono la confessione, un outing, che non si chiama così allora, ma «inopportuna, mai così opportuna invadenza». 

«Ma tu, Fabrizio, sei ghei?». 

Lo sventurato risponde e da allora il groppo in gola, il nodo, la bile si sciolgono, non ho più paura di essere me stesso, almeno in quel momento, in quella macchina. Poi le portiere di quell’auto si spalancano e sai che sei solo all’inizio. E a cascata arrivano altri debutti, altre dichiarazioni estorte o spontanee, queste ultime alle persone a cui tengo.

Ricordo un’amica offesa perché lo avevo detto prima a un’altra, una scenata: «Tu non hai fiducia in me». Altri lo vengono a sapere da altri, altri da altri, altri si trovano in compagnia direttamente il fidanzato, compresa la famiglia. 

È insiemistica dei sentimenti e delle paure, del detto e del non detto, cerchi concentrici, tangenti, intersecanti. Ai miei non l’ho mai detto, perché ciò che sono non ha bisogno del consenso di nessuno, nemmeno del loro e secondo me questo è una forma di pride.

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