Due giorni prima dell’inaugurazione del Cassero, nel 1982, l’allora sindaco di Bologna, Renato Zangheri, ricevette un messaggio dal cardinale Antonio Poma, al tempo arcivescovo della città: in quella missiva il porporato esprimeva la sua più “profonda amarezza” per la destinazione di quell’edificio alla comunità LGBT+, denunciando lo “scippo” della storica fermata della Madonna di San Luca nella sua annuale discesa in città. L’amministrazione comunale fece alcuni tentativi di proporre alla comunità omosessuale un’altra sede, ma dinanzi alla loro testardaggine dovette portare a termine quella promessa e rivendicare la scelta di assegnare quello spazio all’allora Circolo 28 giugno. Così Bologna scrisse una delle più importanti pagine della storia del movimento LGBT+ italiano. Ma assieme alla storia, da quel momento si inaugurò anche un altro racconto, molto meno nobile, in cui si sono accumulati negli anni tutti i tentativi della Curia e dei suoi emissari di rimettere in discussione l’assegnazione di uno spazio pubblico a gay, lesbiche e trans. Un’antologia decisamente ripetitiva, vivacizzata di tanto in tanto dalle beffarde reazioni degli abitanti del Cassero. La prima fu proprio in occasione di quell’inaugurazione, celebrata da un corteo che da piazza Maggiore giunse fino a Porta Saragozza. Lì si tenne lo spettacolo di Ciro Cascina, che, per l’occasione, anziché dedicarlo come sempre alla Madonna di Pompei, scelse di intitolarlo alla beata Vergine di San Luca.
Da allora, e per tutto il tempo di permanenza dell’associazione omosessuale in porta Saragozza, la processione dell’icona sacra per protesta smise di effettuare la tradizionale sosta nei pressi della Porta, trasgredendo una tradizione che durava da decenni.
Dopo il cardinale Poma, nel 1985 alla cattedra di San Pietro arrivò Giacomo Biffi, che lì sarebbe rimasto per due decenni. I primi anni sembrarono di calma piatta, poi l’alto prelato entrò in trincea: nel 1994, ad esempio, l’arcivescovo definì gli omosessuali “aberranti al pari di necrofili, pedofili ed esibizionisti”, guadagnandosi una querela per calunnia e diffamazione da parte dell’Arcigay. Gli interventi omofobi di Biffi avevano frequenza quasi settimanale: altri anatemi giunsero ad esempio in occasione dell’inaugurazione (simbolica) del registro delle unioni civili, fatta nella terrazza del cassero di Porta Saragozza, alla presenza di consiglieri comunali e di molte personalità del movimento.
Sempre in quel periodo, in occasione della decennale eucaristica, gli attivisti e le attiviste del Cassero si recarono nei vari punti di arrivo in città dei pullman di pellegrini: a loro consegnarono, uno a uno, una lettera aperta. Era un sunto di ciò che il Cassero era e delle battaglie che sosteneva. La lettera si chiudeva con un messaggio di benvenuto. Le reazioni furono nel migliore dei casi ostili, nel peggiore violente: le persone venute in città per pregare, reagirono a quella lettera in modo assolutamente prevenuto, nessun dialogo era possibile. Altre saette porporate giunsero nel 1995 dalle colonne di Avvenire in occasione del Pride nazionale, convocato proprio a Bologna. Biffi, perciò, diventò protagonista degli slogan di quella manifestazione, tra “Biffi, ci fai un baffo” e “Chi non salta cardinale è, è”.
Pochi anni dopo, precisamente nel 2002, arrivò lo storico trasloco: il Cassero lasciò la sede di Porta Saragozza e si stabilì alla Salara. La comunità casserina insomma restituì la “sacra porta”, inviando una lettera all’arcivescovo: “Quel luogo – vi si leggeva – da cui, per tradizione, ha origine il cammino della processione della Madonna di San Luca torna così a quella funzione da cui la curia da lei oggi guidata aveva ritenuto di sospenderlo per vent’anni. Oggi al Cassero rimane una storia intessuta di solidarietà, di libertà, di amore. Siamo certi che la Madonna di San Luca sarà contenta anche per questo di essere affrancata dal suo esilio coatto e di rivolgere un sorriso al Cassero. Siamo certi che il Cassero risponderà a quel sorriso”. Curiosità: dopo quel trasferimento, l’edificio di Porta Saragozza fu ristrutturato e destinato a Museo della Beata Vergine di San Luca, come le opposizioni richiedevano già dal 1982. La sede espositiva fu inaugurata nel 2005 e da allora riceve contributi pubblici costanti, oltre a utilizzare personale comunale. Lo stesso report del Comune di Bologna piazza quella sede all’ultimo posto nella classifica dei musei che ne descrive il flusso di visitatori: solo 1,5 visitatore all’ora, un dato che tiene conto anche del pubblico dei rari cicli di conferenze organizzati all’interno della struttura.
La speranza che la restituzione di Porta Saragozza determinasse l’attenuarsi degli sproloqui della Curia si rivelò una pia illusione. Nel 2006, quando due ragazzi omosessuali furono aggrediti nei pressi della Salara, il vescovo ausiliario Ernesto Vecchi giustificò quel fatto con la famigerata frase: “La violenza è cugina della trasgressione”. In altre parole: i gay, le botte se le andavano a cercare. Ma il bersaglio preferito degli attacchi curiali divenne Gender Bender, il festival internazionale prodotto dal Cassero: “È lecito spendere soldi pubblici per finanziare spettacoli di pornostar mascherate da artisti?” polemizzò la curia su Avvenire sempre nel 2006, alla vigilia della quarta edizione della kermesse. Il festival, a detta dell’autore del velenoso editoriale, rappresentava “l’invasione barbarica che oltraggia la fede e la ragione dei bolognesi” . E ancora: nel 2009 quando il festival Gender Bender ospitò Soggettiva con un’ampia sezione dedicata alla rappresentazione della donna, la curia si scagliò contro il manifesto “Corpus Domina”, che rappresentava una bella donna grassa in procinto di spogliarsi. Via Altabella definì quel titolo “sconcertante” e reiterò la richiesta di sospensione dei finanziamenti pubblici. Oltre a Gender Bender, nel mirino finì il Pride: nel 2008, quando Bologna accolse la manifestazione nazionale, l’ormai rituale editoriale dell’inserto regionale dell’Avvenire stigmatizzò la manifestazione. Inoltre, alcune ore prima della parata, Davide Rondoni, poeta vicino alla curia, diede appuntamento alla stampa in piazza Ravegnana per segnare il luogo da cui sarebbe partito il corteo con la lettura di un brano del’Inferno di Dante, quello sul girone dei sodomiti. In quell’occasione fu una delle modelle di Miss Alternative, la spericolata Gaeta Jones, a farsi ambasciatrice della replica del Cassero; giunse a quell’appuntamento travestita da Beatrice e dopo che Rondoni ebbe concluso la sua lettura, recitò con la sua cadenza partenopea un celeberrimo testo del repertorio pop: “Girls just want to have fun” di Cindy Lauper. Stessa insofferenza anche nel 2012, quando Bologna fu designata nuovamente come sede del Pride nazionale: questa volta la curia, attraverso il parroco della chiesa di Santa Caterina, don Celso Ligabue, si scagliò contro il punto fissato per la partenza della manifestazione, cioè Porta Saragozza. Don Ligabue, che evidentemente aveva rimosso il valore simbolico di quell’edificio per la comunità LGBT+ , riteneva che far iniziare da lì la parata fosse una “provocazione imperdonabile”, in quanto quello era “un luogo sacro”.
Nel 2013, quando il festival Gender Bender inaugurò il suo cartellone di spettacoli per l’infanzia al Teatro Testoni con uno spettacolo di Emma Dante, fu Manif pour Tous a scendere in campo, con una squallida manifestazione davanti all’arena, con tanto di palloncini per carpire la benevolenza dei bambini.
Quella volta, come tutte le altre volte, assieme agli integralisti cattolici si schierarono i miliziani di Forza Nuova. E ancora oggi la storia si ripete.
pubblicato sul numero 4 della Falla – aprile 2015
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