di Roberto Pisano
Alessandra Bernaroli ci ha raccontato la sua storia dal palco del Pride dello scorso anno. Oggi, dopo sette anni di battaglie legali vinte, il ddl sulle Unioni Civili fa svanire di fatto le conquiste ottenute sui banchi del tribunale.
È un caso giuridico senza precedenti. Ottenuto il cambio di sesso legale sui documenti, Alessandra scopre nel 2009, cercando di rinnovare la carta d’identità all’anagrafe, che il Comune di Bologna aveva annullato d’ufficio il suo matrimonio. “Stato civile non documentato” recitano i suoi nuovi documenti. Peccato che un matrimonio lo possa sciogliere solo un giudice con una sentenza e non un funzionario comunale. Da lì il ricorso contro l’annullamento, perché Alessandra e sua moglie vogliono che la loro unione matrimoniale non subisca conseguenze, ma il Tribunale si giudica incompetente e passa la palla alla Corte Costituzionale: si tratta di una situazione particolare che non può essere ricondotta ai principi dello scioglimento del matrimonio.
E’ vero che le norme prevederebbero la dissoluzione automatica, ma questo contrasta con i principi della Costituzione, che tutelano l’integrità dei diritti acquisiti e vietano la discriminazione. Così, finalmente, nel giugno 2014 la Consulta riconosce la rilevanza giuridica dell’amore tra Alessandra e Alessandra, dichiarando incostituzionale parte della legge del 1982 sul cambio di sesso. Ma assume un atteggiamento pilatesco, pronunciando quel che in gergo si definisce un non possumus. Fino a che il legislatore non introdurrà una forma giuridica che tuteli i loro diritti la loro unione non potrà essere disintegrata, ma nel frattempo torni il giudice della Cassazione a esprimersi. Così, nel 2015 arriva il verdetto che tutti pensano conclusivo: i diritti acquisiti col matrimonio non vengono meno nemmeno se lui cambia sesso e diventa una lei e dunque il Comune non può imporre il divorzio. Il primo riconoscimento, pur provvisorio, del matrimonio tra due persone dello stesso sesso, finché il Parlamento non avrà varato le unioni gay.
Oggi, dopo aver udito nuovamente l’eco dei loro sì, la doccia fredda: il primo legame omosessuale consacrato sul piano civile e religioso viene derubricato a unione civile, grazie all’articolo 7 della legge Cirinnà, introdotto proprio per produrre un declassamento. Un paradosso: il loro matrimonio resta invece valido per la Chiesa romana, anche se non certo per le aperture progressiste delle gerarchie cattoliche, ma per il fatto che chi si sottopone a un cambio di sesso è considerato malato e il matrimonio vive “nella buona e nella cattiva sorte”. Ora, però, la battaglia riparte.
Dopo gli sforzi legali per mantenere vive le vostre nozze, sfidando i massimi organi giuridici e costituzionali, a mettere in discussione il tutto è una legge che, sulla carta, doveva rappresentare il passo in avanti che attendevamo. Avevate messo in conto un esito del genere?
Questo risultato disegna sicuramente il peggior scenario tra quelli che ci eravamo rappresentati. Questa legge mortifica la specialità del matrimonio transessuale preesistente omologandolo al matrimonio same-sex con un’operazione giuridicamente scorretta, volta a impedire che potesse essere utilizzato come baluardo per il raggiungimento dell’eguaglianza civile di tutte le persone “non etero”. E distribuisce non diritti, ma simulacri di eguaglianza, contribuisce a dividere il popolo LGBT+ impedendone così la compattezza che sarebbe necessaria per portare avanti le giuste richieste di eguale trattamento come da articolo 3 della Costituzione italiana.
Quali sono le strade che percorrerete ora?
Ora attenderemo i regolamenti attuativi per verificare nel concreto quali effetti potrà produrre questa nuova legge sulla nostra vita quotidiana di coppia e poi faremo le opportune valutazioni. Si potrebbe ripercorrere la via interna sollevando questioni di incostituzionalità, così come sarebbe possibile un ricorso diretto alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Resta da valutare anche la sussistenza di differenti trattamenti negli ambiti di competenza della Corte di Giustizia.
Di recente hai annunciato che saresti disponibile a mettere in gioco la tua identità femminile pur di salvaguardare il vostro matrimonio. Una scelta coraggiosa, ma non rappresenterebbe una sconfitta per tutta la nostra comunità e per la società tutta?
In effetti ho ribadito questa idea sia come provocazione volta a mettere in luce l’irragionevolezza di questa normativa discriminatoria, sia come possibile esito di una scelta che mi troverei a dover fare tra due diritti fondamentali della persona: il diritto al nome e il diritto di sposarsi; in questo caso, anche per l’amore che ho verso mia moglie, sarei pronta a rinunciare al nome pur di salvare il matrimonio. Detto questo, non so se questa mia ipotetica scelta potrebbe rappresentare una sconfitta per la nostra comunità, ammesso (e non concesso) che questa comunità sia coesa e abbia chiarezza di obiettivi.
pubblicato sul numero 16 della Falla – giugno 2016
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