(ITA 2019, 60’)

Alcuni mesi dopo aver cambiato i documenti, il mio operatore telefonico mi ha bloccato la scheda SIM perché i dati anagrafici associati a quell’utenza non erano più validi. Contattare l’azienda non è servito a provare che io sono sempre la stessa persona, sicché, piuttosto che subentrare a me stesso, ho deciso di cambiare ditta.

Il giorno successivo a questa radicale scelta di vita (risate registrate) ho visto Un uomo dev’essere forte di Elsi Perino e Ilaria Ciavattini, un documentario che distilla in 60′ quattro anni di vita di Jack, un uomo trans come me. Appare la seguente scena: Jack è a cena da una coppia di amici. Lei, confidente di vecchia data del protagonista, è una gran chiacchierona. Con una discreta dose di ironia descrive il fidanzato lì presente, anche lui trans, come un truffatore: perché quando l’ha conosciuto aveva sembianze femminili e dunque lei, anche se lesbica, ha potuto innamorarsene. «Ma è diverso!» esclama Jack. E anche io, davanti allo schermo, ho esclamato la stessa cosa, rischiando di affogarmi con le patatine.

Nervo scoperto, crux desperationis di tante persone trans, mantenere una continuità nell’espressione di sé ma soprattutto nella decifrabilità di sé, affermando contemporaneamente in maniera non equivocabile la propria identità, è una fatica di non poco conto. Far capire di essere così radicalmente diversi-da-prima da necessitare di un nome nuovo, e però ancora abbastanza gli stessi-di-prima da non dover per forza cambiare morosa, può apparire paradossale e quindi impossibile. Questo film, incentrato sulla metamorfosi fisica che Jack subisce nel corso di quattro anni, riesce a ricomporre il paradosso. Jack cambia, sì, ma come cambia d’aspetto una roccia che si copre di muschio. Nato e vissuto da sempre nella Val Trompia, i suoi mutamenti sono profondamente integrati nel paesaggio affettivo di cui fa parte. Lo vediamo, bambino, dedicarsi allo stesso hobby (la pesca) che pratica da grande. La sua storia personale gode di una continuità garantita dalla presenza, al suo fianco, di persone che ne detengono la memoria: la madre, il fratello, gli amici. La naturalezza del cambiamento fisico di Jack, l’impressione che il suo sia un mutamento ordinario dovuto alla crescita, è enfatizzata dall’aspetto già in partenza androgino del ragazzo. La barba gli serve non a sembrare un uomo, ma a dimostrare un’età rispettabile al lavoro, ed è per questo che è così restio a tagliarla. E la sua presenza-in-mutamento finisce con l’avere conseguenze profonde per l’ecosistema in cui vive: i maschi gli fanno spazio in spogliatoio, e una donna decide di essere la sua compagna, conquistata dalla sicurezza di sé che Jack dimostra.

La rappresentazione di una vita trans come essenzialmente ordinaria, sebbene attraversata da un evento inconsueto, è senza dubbio un punto di forza del film, ed è una scelta quasi di rottura rispetto al panorama mediatico in cui esso si inscrive. Non altrettanto coraggiosa appare la caratterizzazione del protagonista, giocata sui più prevedibili topoi trans: Jack che si fa la barba anche se non ce l’ha ancora, Jack che fa la puntura, Jack che legge la sentenza, Jack che affronta la mastectomia. Ne risulta un’identificazione totale fra la persona trans e quella fiction sociale che chiamiamo percorso-di-transizione.

La storia di Jack, organizzata attorno a snodi narrativi diversi, sarebbe stata comprensibile al pubblico? Evidentemente le autrici pensano di no, ed è difficile, oggi, dar loro torto. Ma sarebbe stato comunque possibile mostrare anche i risvolti più oppressivi del cosiddetto percorso, che risulta invece a tratti idealizzato come un evento salvifico. Ed è un messaggio francamente ambiguo quello del Jack fatto e finito, secondo cui «nella vita si può fare tutto, basta avere un attimo di pazienza»: perché ancora oggi, per «fare tutto» occorre soprattutto avere risorse economiche e di relazione, e assumere un’identità pienamente riconoscibile come o maschile o femminile, adottando in blocco le convenzioni associate a questi concetti.

Ma sono critiche, queste, mosse dalla prospettiva minoritaria di qualcuno che ha vissuto la transizione sulla sua pelle. La verità è che Un uomo dev’essere forte, nella sua semplicità, riuscirà stupefacente agli occhi dei tanti per i quali la parola trans evoca ancora scenari tra il grottesco e l’apocalittico: un film prezioso, dunque, oltre che esteticamente gradevole, che ci auguriamo di vedere presto a Bologna.