Questo essay è stato scritto a maggio del 2020, in quarantena a Bologna. Originalmente in inglese per un corso di Letteratura inglese delle donne, condiviso dalla docente a Irene Russo che mi ha scritto per pubblicarlo. Ringrazio lei che ha deciso di tradurlo all’italiano per questa edizione di La Falla.

Traduzione dall’inglese all’italiano di Elena Strappato e Irene Russo

“Poiché sono solo, chiedo solamente di poter amare. 
Se mi dai una compagna, lascerò l’Europa per sempre.”

Frankenstein nell’adattamento cinematografico diretto da Nick Dave, 2011

A Patrick George Zaky

Diverse analisi leggono Frankenstein, o il moderno Prometeo come un romanzo sulla maternità. Altre, come la potente opera di Mary Poovey (La vera signora e la scrittrice donna – ideologia come stile nelle opere di Mary Wollstonecraft, Mary Shelley e Jane Austen) (1984), fanno luce sulla tensione tra sessualità e corpo del testo all’interno del romanzo. 

Sarebbe però impossibile riassumere tutte le diverse letture, è dalla sua creazione che Frankenstein è una delle opere più interpretate e riadattate della storia e un esempio paradigmatico di approccio allo studio della teoria letteraria femminista. Quindi, nell’analizzare partirò da ciò che conosco. Per me, scrivere da un’ottica femminista prende in considerazione due premesse: la prima è la mescolanza della mia esperienza personale a un’analisi sociologica, critica e politica, in questo caso, di un romanzo. Arrivando alla seconda premessa: preferisco utilizzare l’approccio genealogico per arrivare a una prospettiva decoloniale e non eurocentrica, parlando di femminismi, al plurale. 

illustrazione di Michelangelo Magnini

Negli anni Ottanta Adrienne Rich si è riappropriata, con profondo rispetto e coerenza intellettuale, della critica delle femministe nere per denunciare l’egemonia del femminismo bianco, che dà per scontato che le donne siano tutte uguali. Rich ci ricorda all’inizio del suo articolo pionieristico  Notes toward a Politics of Location (1984) che non possiamo parlare di una comune oppressione delle donne o di un patriarcato universale. La celebre frase di Virginia Woolf: «come donna, non ho Patria. Come donna, la mia Patria è il mondo intero», viene da Rich messa in discussione sulla scia del femminismo nero e delle donne di colore, affermando che le donne «hanno una Patria» e differenti esperienze di oppressione. 

Il femminismo è stato sempre per me una lente sui sentimenti, sul corpo, sull’umanità, la differenza, la diversità, il piacere, la sessualità, l’uguaglianza, la giustizia, la sorellanza, il lavoro, il sé e l’anima. Ma poiché il femminismo esiste al plurale, plurali sono le visioni di questi concetti. Partendo dalla mia esperienza personale e leggendo le teorie del nostro Sud del Mondo, i concetti di «colonialità del potere» e di «sistema coloniale moderno dei generi» sono la cornice delle mie riflessioni. Parte essenziale del mio femminismo implica non solo posizionarmi contro tutte queste oppressioni, ma anche essere attiva nel movimento femminista locale, regionale e globale in modi e forme diverse secondo quello che sono i miei bisogni e i miei desideri.

Riconoscendo me stessa all’interno di questa eredità, vorrei iniziare utilizzando la mia esperienza personale e il mio posizionamento geopolitico come fonte. Poiché il mio sapere è situato e la mia esperienza ha certamente influenzato il modo in cui ho letto il romanzo, non solo in riferimento alla geografia, ma anche all’intersezione tra le diverse soggettività che incarno. I miei pensieri hanno un corpo, risiedono in un contesto storico e sociale: sono argentina, latina, lesbica, studentessa di studi di genere, sociologa e attivista transfemminista. La mia borsa di studio mi permette di studiare in Europa, ma l’ho vinta come studentessa non europea, in questo modo sono stata considerata una migrante e «razzializzata».

Tutte queste parole non hanno la pretesa di essere il mio curriculum, né la lista delle identità o delle etichette collezionate per descrivermi, ma la possibilità di inscrivere la storia del mio corpo s/confinato. Quante volte mi sono sentita l’Altro come la Creatura del romanzo?

La prima volta che ho letto Frankenstein ero in quarantena in Italia a causa del Coronavirus: la mia lettura era attraversata da sentimenti di paura, ansia, rabbia, solitudine e incertezza per la lontananza di amici e colleghi, della mia famiglia e della mia partner. Frankenstein costruisce un corpo umanoide grazie alla sua conoscenza scientifica ma non sa cosa fare di tutte le passioni e i sentimenti risvegliati in quel corpo. Lo valuta solo in base al suo «brutto» aspetto, chiaramente operando una distinzione tra mente e corpo. Lui è una testa senza il corpo, la Creatura è un corpo senza testa.

La separazione mente-corpo, prodotto della filosofia moderna, razionalista e illuminista europea è stata criticata dalle teorie post-coloniali e decoloniali nella sua pretesa di essere l’unica forma di sapere e pensiero possibile. La scienza è uno dei campi in cui questa presunzione viene a galla nella maniera più evidente: ciò che non è razionalmente dimostrabile non è scienza. Adottare una prospettiva femminista vuol dire anche concentrarsi sulle emozioni e il femminismo è per me sempre stato un approccio al concetto di “cura”: rileggo le minacce e le urla di disperazione della Creatura in questa ottica. 

Se la quarantena ha fatto sì che come società arrivassimo a ragionare dell’importanza del contatto umano e delle relazioni della nostra quotidianità, del vedere i nostri affetti e le persone amate come parte essenziale al nostro benessere (inteso sia come salute mentale, ma anche come condizione in cui chiedere aiuto quando siamo malate o tristi): come avrebbe potuto una creatura abbandonata dal suo creatore vivere – non sopravvivere – senza essere riconosciuto dall’altro come oggetto d’amore?

Mentre rileggevo Frankenstein e le sue interpretazioni, ho visto anche l’adattamento scritto da Nick Dear, con la Creatura interpretata da Benedict Cumberbatch e Jonny Lee Miller nei panni di Frankenstein. Il video era stato reso disponibile in open source per una settimana dal National Theatre di Londra (non sarebbe stato possibile per me avere accesso a quest’opera se non fosse esistita una quarantena e io non avessi vissuto in Italia durante quel periodo). L’opera, perfettamente interpretata, è narrata dal punto di vista della Creatura. 

Nella mia visione, la voce della Creatura rappresenta, sia in una dimensione psicologica ma anche post-coloniale, la voce e la prospettiva dell’Altrə, di chi sta sempre al di fuori dalla norma, sottostimatə per la sua diversità (che sia per il suo «brutto» aspetto, per la mancanza di capacità sociali, o per il linguaggio incomprensibile), privatə della sua capacità decisionale e persino di un nome proprio. «Stai calmo! Ti prego di ascoltarmi prima di dar sfogo al tuo odio sulla mia testa fedele» dice la Creatura a Victor Frankenstein nel punto esatto in cui Mary Shelley fa parlare la Creatura in prima persona. 

Questo episodio mi riporta alla definizione di Spivak di «violenza epistemica» che può essere usata per comprendere questo passaggio dalla voce di Frankenstein a quella della Creatura. Shelley stava provando a far emergere la voce della Creatura? Non sapremo mai le sue vere intenzioni, ma possiamo provare a leggerle in chiave politica come riappropriazione delle ragioni degli oppressi non solo per vittimizzarla, ma anche per mostrarne il potere: così infatti risponde la Creatura a Frankenstein, dopo che quest’ultimo ha rotto la promessa di donargli una compagna: 

«Vattene! Rompo la mia promessa; non creerò mai un altro essere come te, simile in deformità e in malvagità» 

«Ricorda che sono potente; tu ti ritieni miserabile, ma io posso renderti così sventurato che la luce del giorno ti sembrerà odiosa. Tu sei il mio creatore, ma io sono il tuo padrone; obbedisci!» 

Il potere è costitutivo di una soggettività, come diceva Foucault all’interno delle teorie post-strutturaliste: nel momento in cui c’è una relazione di potere, c’è sempre anche una forma di resistenza (concetti riformulati anche da Butler nelle sue teorie queer). Da una prospettiva post-coloniale e decoloniale, restituire la voce a coloro che storicamente venivano alterizzatə (donne, persone nere e di colore, colonizzate, povere, disabili, persone trans*, lesbiche e gay, anziane, grasse, ecc) è un modo di ridar loro potere. Loro hanno sempre resistito a violenza e oppressione, provato rabbia, ma è questa rabbia, come quella che prova il personaggio della Creatura di Shelley, che può anche essere una grande spinta a cambiare lo status quo. Potremmo anche vedere la rilevanza della richiesta della Creatura (la fabbricazione di una partner) come una «richiesta positiva», che lo allontana dagli istinti di violenza e vendetta per trasformare la sua rabbia in forza creatrice, in cerca di una nuova vita nella quale riconoscimento e amore possano essere viste come possibilità di cambiamento. 

Nell’ adattamento teatrale del romanzo, la scena in cui la Creatura immagina la sua compagna abbracciarlo mi ha colpita particolarmente: come avrei potuto non paragonarlo immediatamente alla solitudine del mio isolamento? Quel desiderio, mosso dalla mancanza di contatto fisico, in particolar modo di baci e abbracci, e il contesto di proibizione di vicinanza fisica, ci riportano alla questione dell’umano. Citando Judith Butler: cosa rende le nostre vite precarie? Possiamo non dare la colpa al sistema capitalista, eteronormativo, sessista e razzista dell’esclusione dell’Altrə dall’amore?

Non possiamo vivere senza l’altrə. Ma che succede se l’Altrə è coləi che non avevamo previsto o ci aspettavamo? Chi dà vita a questo mondo? Solo coloro che riproducono creature o anche coloro che se ne prendono cura? E quali creature svolgono nella nostra società la maggior parte del lavoro di cura, non solo lavoro domestico e riproduttivo non retribuito, ma anche emotivo, educativo, istruttivo, e di memoria? Come si può tralasciare la questione della cura in un momento in cui la pandemia ha mostrato come donne, migranti, persone povere e l’Altrə della società, coləi che importa meno, che viene discriminatə, esclusə o confinatə ai margini della storia, è anche coləi che regge la società sulle proprie spalle?Come sempre, ho molte domande senza risposta (e forse è per questa ragione che posso dire che il romanzo è un capolavoro). Penso che Frankenstein sia una storia d’amore che ci racconta di quanto la cura e le carezze siano essenziali alla vita, per comprendere e ascoltare gli altri, come il cieco De Lacey si approccia alla Creatura: senza lo sguardo del privilegio, per trovare nella nostra vulnerabilità una condivisione di vita. D’altronde, non è l’amore, o meglio, l’essere consapevoli della necessità di amore e cura, una delle condizioni più potenti che può unirci come esseri umani?

Immagine in evidenza di Heidrun Lohr