Il candore

della neve

su un ramo di pino,

è il candore

della pelle di lei

dalla spalla

alla gamba.

E l’oscillazione del ramo

sotto la

carne di neve,

è il canto dei fianchi di lei

nel peso delle mie mani.

(Mary Dorcey, “Il candore della neve”, The River That Carries Me, 1995)

Il nostro sguardo, che scorre lungo questi versi di Mary Dorcey (Dublino, 1950 – ), si muove con quello della poeta, la cui mano a sua volta scorre sulla pelle della persona amata, facendola fremere di piacere. Siamo partecipi di un gesto d’intimità, semplice e familiare. E semplice e familiare è anche il modo in cui Dorcey ci mostra che la ‘persona’ amata è una donna. L’essenzialità del linguaggio, la naturalezza del gesto, il candore dello sguardo su un corpo femminile: tutto contribuisce a inquadrare un momento di passione fra donne. Quel «di lei» (her nella versione originale) non lascia spazio all’ambiguità. Un solo aggettivo, così comune, fa esplodere la complessità, soprattutto se chi legge vorrebbe continuare a vedere l’amore lesbico condannato al silenzio, alla marginalità o alla vergogna. Non stupisce allora constatare che, all’uscita della prima raccolta di poesie (Kindling, 1982), i versi di Mary Dorcey abbiano colpito il pubblico mainstream per la loro sfrontatezza: il desiderio messo in scena è chiaramente, ‘naturalmente’ e semplicemente desiderio lesbico. La bellezza del «canto dei fianchi» di una donna al tocco delle mani della poeta è celebrata senza sensi di colpa.

Nelle sei raccolte di poesie fino a oggi pubblicate, Dorcey fa scoppiare la bolla morale dei benpensanti, in diversi modi: dando forma a un linguaggio del desiderio lesbico; dando ascolto alle storie delle donne, troppo a lungo ignorate; e dando voce alle denunce di violenza sulle donne e alle rivendicazioni dei movimenti femminista e lesbico (è stata la prima donna irlandese a battersi pubblicamente per i diritti LGBT+). La riscoperta dell’eredità femminile (individuale e collettiva) è una tappa fondamentale per arrivare alla presa di parola e alla poesia. Le madri sono flagship: nave ammiraglia e al contempo orgoglio, che le figlie seguono in scia («Passaggio inesplorato», in Like Joy in Season, Like Sorrow, 2001). Lo spazio fisico e simbolico lasciatoci in eredità dalle madri è un passaggio liberato affinché le donne che seguono possano muoversi senza limiti ed esprimersi con autorevolezza: «Ma devi fare ogni passo prima/ attraverso questo passaggio/ noi figlie seguiamo dopo/ ognuna di noi/ entriamo nello spazio/ liberato dalle nostre madri (Prove di taglia, in Moving into the Space Cleared by Our Mothers, 1991)».

Nelle poesie di denuncia, Dorcey ancora una volta squarcia la bolla dell’ipocrisia dominante e mostra spaccati di vita quotidiana di donne per le quali la casa, la strada, la piazza o la patria non sono solo il contesto di esperienze di amore, libertà o partecipazione politica, ma sono anche teatro di violenze, minacce, guerra. La donna che cammina cingendo i fianchi della persona che ama senza sentirsi in pericolo (Estate, in Perhaps the Heart Is Constant After All, 2012); la donna che ha un lavoro, del cibo e una casa; la donna che legge le storie di ordinaria violenza su altre donne, vittime di guerre lontane (Una donna in un’altra guerra, 1995): drammaticamente, queste non sono donne comuni. A queste donne, a tutte noi, la poeta impedisce di guardare con ingenuità il mondo in cui viviamo. E a tutte le donne ‘altre’ che stanno combattendo altre guerre, rende onore. Questo sguardo, candido e tagliente, genera la poesia di Mary Dorcey: «come a dire ecco qui –/ questo è il sangue,/ il polso che batte, la gioia,/ la meraviglia, il dolore,/ questo è quanto è costato./ Questo è ciò che ne ho fatto (Patchwork, in To the Air the Soul, Throw All the Windows Wide, 2016)».

*Tutti i versi in italiano qui citati sono tradotti da Maria Micaela Coppola.

Pubblicato sul numero 52 della Falla, febbraio 2020

Immagini da youtube.com, thepoeti.it

Il presente articolo è disponibile anche in inglese