Mia madre, durante una delle mie visite familiari, aveva deciso di dare una botta di ferro da stiro ad un mio giaccone che, a lei, appariva stropicciato. La punta del ferro si era però bloccata su una tasca e pensando che si trattasse di una piega, aveva introdotto una mano nel tentativo di distendere la stoffa. Quando tornai a casa dalla mia passeggiata, mi accolse con uno sguardo torvo e mostrandomi un pacchetto di Rizla, ormai inutilizzabile dopo che il ferro le aveva rese un unico blocco monolitico, mi chiese: “Ti fai le pere?”. Deglutii impercettibilmente e le risposi che erano solo cartine per le sigarette. Le si distese il volto ed io ringraziai il destino per averle donato l’ignoranza necessaria alla mia sopravvivenza: che lei avesse una simile confusione in tema di droghe, a me era sembrata una fortuna sfacciata.
Era la metà degli anni ’80 ed il suo immaginario era forgiato sugli stereotipi tipici legati al clima di “emergenza droga” che in quegli anni era assai diffuso. Un allarme generalizzato che non faceva distinzioni di alcun genere sbraitando di un pericolo epocale al fine di legittimare risposte di tipo emergenziale; ed in quegli anni l’emergenza delle risposte fu organizzata prevalentemente su due circuiti, entrambi con finalità di contenimento: il primo a carattere terapeutico-assistenziale per il “recupero” e la “cura” (i presidi per le tossicodipendenze, spesso alle dipendenze della psichiatria); il secondo a carattere repressivo (carcere) e custodiale (comunità terapeutiche e istituzioni totali). Si stava così strutturando, con l’inconsapevole aiuto di mia madre, un significativo salto di qualità nelle politiche istituzionali: da forme visibili di controllo sociale si passava a forme capillari di controllo nel sociale, favorendo un processo di normalizzazione dell’emergenza e di territorializzazione del controllo.
L’approccio culturale era di tipo emotivo-istintuale e favorevole, per ciò, alla nascita di ambigui gruppi spontanei che, spinti da un coinvolgimento diretto, teorizzavano e sostenevano linee di intervento proibizioniste e repressive.
Quella svolta repressiva iniziata negli anni ’80 non si è mai più fermata ed anzi, si è trasformata nel tempo in leggi sempre più coercitive e segreganti fino ad arrivare alla Fini-Giovanardi del 2006, che è stata rafforzata da una straordinaria operazione di costruzione sociale del problema avvenuta attraverso il braccio operativo del Dipartimento delle Politiche Antidroga (DPA) che ha sancito l’equiparazione tra droghe leggere e droghe pesanti.
Ciò nonostante, tutta la normativa proibizionista e repressiva prodotta dai diversi governi in materia di droga negli ultimi trent’anni, ha sempre dichiarato di avere tra i suoi obiettivi la prevenzione; il che significa, se si guardano i consumi attuali, che da questo punto di vista il loro impianto è stato totalmente fallimentare. Gli stupefacenti e le sostanze psicotrope sono e saranno consumate nonostante le leggi e l’unico effetto che una legislazione proibizionista produce è la riduzione di disponibilità delle sostanze spingendo la domanda a incrociarsi con un’offerta di merce sempre più pericolosa perché fuori da qualsiasi controllo sul piano del contenuto effettivo. La nostra legislazione garantisce, in realtà, la sopravvivenza di un mercato illegale che produce danni ai consumatori e alle consumatrici, lasciando invece intatti i profitti di chi, proprio su quel mercato, vi specula.
Dipendenza non è sinonimo di libertà, certo. E forse ne è addirittura l’antitesi. Ma è un diritto di ogni singola persona quello di non essere punita, criminalizzata ed emarginata per il fatto di far uso di sostanze stupefacenti. L’equazione droga = male e il conseguente approccio in termini di categorie morali rappresenta una semplificazione deformante e distorta, legata a processi di demonizzazione irrazionale e controproducenti, già vissuti, per esempio, con riferimento alla “follia”. Il problema non è la droga in sé ma i suoi modi di uso. E la diversità di questi rimanda alla tipologia degli assuntori e delle assuntrici, estremamente articolata e oscillante tra gli estremi della monodipendenza e del consumo saltuario, di chi riesce a gestirsi in maniera equilibrata e di chi ne è travolto.
Contenimento dei danni e dei rischi (individuali e collettivi) connessi con l’uso di stupefacenti, diminuzione delle morti per overdose, riduzione della trasmissione del virus HIV nonché di altre malattie conseguenti allo scambio di siringhe, miglioramento delle condizioni di salute di chi assume sostanze, aiuto nella gestione della dipendenza. Questi, in sintesi, sono gli obiettivi della cosiddetta strategia di riduzione del danno e questa dovrebbe anche essere la prospettiva di lavoro nell’agenda di chi pensa a uno Stato come luogo di promozione e di solidarietà sociale dando attuazione all’art. 32 della Costituzione che impone di tutelare la salute senza che l’assunzione di sostanze stupefacenti ne diventi punto discriminante. Ma la Relazione Annuale al Parlamento su droga e dipendenze resa pubblica l’8 settembre scorso ci dice, ad esempio, che nel 2014 su 47.988 persone testate, pari al 38,7% del totale delle persone in trattamento, quelle risultate positive all’HIV sono 2.852, cioè il 2,3%. Un dato preoccupante che conferma come l’ideologia repressiva abbia prevalso sul dettato Costituzionale e quanto sia urgente cambiare strategia.
Nel maggio del 2016, a New York, ci sarà una importante Sessione speciale dell’Assemblea generale Onu sulle droghe (Ungass) per innescare un cambiamento radicale delle politiche globali sulle sostanze stupefacenti. L’evento avrebbe dovuto tenersi nel 2019, ma i presidenti della Colombia, del Guatemala e del Messico hanno chiesto di anticiparla, data l’urgenza dei problemi da affrontare: negli ultimi anni la guerra internazionale alla droga – che ha preso slancio dall’Ungass 1998 stabilendo l’obiettivo di “un mondo senza droghe” – ha inasprito in molti paesi problematiche di salute pubblica, corruzione, violenza e alimentato il mercato nero degli stupefacenti. Per questo, recentemente, molti governi nazionali hanno espresso dissenso nei confronti della politica di “guerra alla droga”, mentre sono sempre di più le evidenze scientifiche che mostrano l’efficacia, in termini di salute pubblica, degli interventi di riduzione del danno. Alcune organizzazioni internazionali hanno sollevato la questione di una reale partecipazione della società civile a Ungass 2016 e si sta lavorando per la costruzione di una Civil Society Task Force che sia presente all’evento. C’è da sperare che in Italia si ricostruisca al più presto una maggiore attenzione politica e sociale sul problema e chi sia archiviato per sempre l’approccio ideologico che l’ha contraddistinta fino ad oggi. C’è da lavorare molto ma, i prossimi, potrebbero essere anni stupefacenti!
pubblicato sul numero 8 della Falla – ottobre 2015
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