Quando nel 1927, a Parigi, la videro ballare con indosso un vestito fatto di banane, nessuno degli avventori del Folies Bergère avrebbe immaginato di ritrovare Josephine Baker al fianco di Martin Luther King Jr. nella marcia a Washington del 1963 – unica donna ufficialmente inserita tra gli interventi. Nessuno, oggi, potrebbe agitare con quella dignità assoluta una gonna di banane contro il suprematismo bianco che infetta il mondo.

Non gli Stati Uniti d’America del Muslim ban, quelli in cui il presidente definisce “shithole” Haiti e i paesi africani; non quell’America tutta riassunta a Charlottesville, dove James Alex Fields Junior si scaglia su una folla di attivisti con la propria auto, uccidendone una al grido di “white lives matter!”. Non vuole arginare il neonazismo l’Europa delle percentuali inquietanti: Alba Dorata è il terzo partito greco nel 2015 (7,09%); Front National  è secondo in Francia nel 2017 (21,30%); sempre nel 2017 sono 94 i seggi assegnati ad Alternative für Deutschland (12,64%), mentre il 26% delle preferenze al FPÖ austriaco fanno guadagnare a Heinz-Christian Strache il ruolo di vice-cancelliere. Tutti partiti di estrema destra dichiaratamente razzisti.

In Italia, il rapporto mai risolto col ventennio fascista è il terreno fertile per uno stillicidio culturale sempre più istituzionalizzato. Attilio Fontana, candidato leghista al governo della Lombardia, si erge infatti con disinvoltura a difesa della razza bianca. 5mila militanti di Forza Nuova lo scorso 4 novembre marciano su Roma, in omaggio alla manifestazione armata del 1922. È questa l’Italia che arma Luca Traini a Macerata e che lo fa accogliere dagli applausi in carcere: il merito è quello di aver sparato a sei africani. La domanda allora è semplice: per quanto tempo ancora rifiuteremo di riconoscerci come strutturalmente razziste? Dobbiamo stanare quell’orrore storto che ci sta dentro e riconoscerlo, dargli un nome per salvare dall’inferno ciò che inferno non è. Dobbiamo domandarci chi di noi ritroverà la dignità necessaria per indossare ancora quella gonna di banane.

pubblicato sul numero 33 della Falla – marzo 2018