Viaggio tra i Pride della mia vita

Cos’hanno in comune Grosseto e New York? Ma anche Napoli, Roma, Torino, Milano, Palermo e Parigi, Tallin e Londra? Sono i Pride a cui ho partecipato dal 2004 al 2019. No, questa non è una carrellata di glorie, piuttosto una condivisione di esperienze. Perché dal primo Pride che ho vissuto, Grosseto 2004, all’ultimo, New York 2019, ovviamente con tutti quelli di Bologna in mezzo, molte cose sono cambiate. 

In realtà tutto ha inizio prima del 2004, in occasione del primo grande Pride che l’Italia ha potuto avere l’onore di vivere, il primo perlomeno agli occhi di una millennial come me: Roma 2000. Ai tempi non avevo ancora fatto coming out, anche se ero molto vicina al farlo, e per puro caso stavo per andare a quel Pride. Potrei dilettarvi con racconti familiari molto buffi, ma mi limiterò a dire che mia zia Edere, una grandissima alleata della nostra comunità, ci è andata e voleva portare anche la nipotina quindicenne. Poi le date non coincidevano con la fine della scuola, una serie di questioni si sono sommate ed è il Pride che ho perso… Ma è anche il primo Pride di cui ho avuto un racconto diretto: mia zia e le sue amiche sono rientrate con materiali, giornali, volantini. È stata una grande svolta. Questo per me è sempre stato il Pride: il momento di svolta.

E il primo di questi momenti è stato a Grosseto nel 2004: andai con la delegazione del Cassero che, in tutti gli anni in cui ci sono stati i Pride nazionali, ha partecipato con un gruppo numeroso e un carro sul quale ballavamo, cantavamo, urlavamo e dal quale distribuivamo materiale, preservativi, volantini. Strano pensarlo ora che la carta stampata va sempre meno. A Grosseto ho sentito la potenza del Pride: essere con altre persone della comunità LGBTQI+, farsi visibilità e lotta senza smettere di ridere, ballare e cantare, com’è prerogativa della nostra comunità.

Da quel primo, tutti i Pride hanno riecheggiato quell’intensa emozione che la me stessa ventenne aveva provato, quella voglia di esserci, di viverlo, di condividerlo. Così è stato a Milano nel 2005 – quando al carro del Cassero si ruppe il generatore e facemmo metà parata a suon di slogan. Così Torino nel 2006 e tutti gli altri a seguire, passando per Napoli 2011, quando ho incontrato mia zia Edere, quella che era andata al Pride di Roma, in Piazza Plebiscito! 

Poi nel 2012, anno del Pride nazionale a Bologna, un’altra svolta: la possibilità, per me, di viverlo da un punto di vista diverso, quello di chi organizza. Per anni ho avuto l’onore di gestire il gruppo di volontariə ed è un’esperienza che mi ha permesso di vedere riflessa quella gioia di esserci in tutti gli sguardi che ho incontrato, sia di volontariə che di amicə o sconosciutə.  

Organizzare un Pride non è una cosa semplice. Non lo era quando i Pride erano nazionali: veniva decisa la sede durante le assemblee di movimento e l’organizzazione locale doveva fare in modo di predisporre tutto pensando agli arrivi di pullman, treni e auto da tutta Italia. Ma non è una cosa semplice nemmeno per i Pride locali dell’Onda Pride: ogni contesto è diverso e il dialogo tra associazioni, enti pubblici ed eventuali sponsor di certo non procede allo stesso modo ovunque. 

Personalmente credo che la moltiplicazione di Pride locali sia un’ottima evoluzione per la nostra comunità: gruppi di vario tipo si mettono alla prova, amministrazioni grandi e piccole vengono stimolate, persone alleate e non vengono coinvolte; soprattutto quelli nei contesti piú provinciali sono un banco di prova, un’occasione per la comunità LGBTQI+ per farsi visibile ed orgogliosa, ma anche per la cittadinanza, per prendere posizione. Ora potrei raccontare dell’unico Pride attaccato a cui ho preso parte: il Baltic Pride che si tenne a Tallinn nel 2006. 

I Paesi baltici hanno sempre avuto difficoltà con i Pride da che hanno iniziato a farli e quello di Tallinn non fu da meno. Certo, parlo di qualche momento poco piacevole, qualche uovo, molte urla, tanti sguardi rabbiosi, ma ci è andata molto meglio dellə nostrə compagnə a Riga che l’anno prima furono ricoperti di escrementi, o delle innumerevoli volte in cui, sempre nei Paesi baltici, hanno organizzato le manifestazioni dentro i parchi senza poterne uscire se non rischiando di essere aggreditə… Sono contesti diversi, ma non dobbiamo compiere l’errore di sentirli lontani. 

Così come non sono lontani Parigi – lo vidi nel 2007 – e Londra, quando andai per il World Pride 2012: europei, almeno di cultura, ma mastodontici e con mille sfaccettature come manifestazioni. Di Parigi mi colpì la presenza delle forze politiche e delle istituzioni, da noi all’epoca ancora grandi assenti. A Londra rimasi a bocca aperta davanti alle comunità immigrate o di seconda generazione provenienti da ogni parte del mondo. 

Ogni Pride ha un dettaglio che ti resta addosso. E nel World Pride di New York del 2019, quello dei 50 anni da Stonewall, quello nel quale abbiamo sfilato come Bologna Pride, mi è rimasta impressa la reazione della gente intorno: supporto, sostegno, abbracci gratis, acqua, applausi. Dovete immaginare la scena. Chi sfila deve afferire a un gruppo iscritto alla parata e le associazioni partecipano gratuitamente, mentre le realtà profit pagano. Ogni partecipante di oggi gruppo ha un punto di accesso e non può uscire prima della fine del percorso perché i lati sono tutti transennati. Così chi è dentro sta dentro e chi è fuori resta fuori. Come in ogni cosa degli States, tutto è più grande di quel che ti aspetti e anche se a sfilare c’erano una moltitudine di soggetti (scuole, televisioni, identità nazionali, associazioni, enti, star, ecc.) era il pubblico a fare la differenza.Chissà se Masha e Silvia, quella notte, si immaginavano sarebbe successo tutto questo a causa del loro gesto. Sta a noi tenere alta quell’energia e non perdere le loro tracce. Impegnarci ogni giorno, e al Pride ancora di più, a riportare la loro forza in ogni nostra rivendicazione e a non aver paura di attraversare il tempo e lo spazio per farci visibili e per essere orgogliose.

Immagine nel testo di Francesca Buonacara