LAVORO SESSUALE E QUARANTENA

di Nicola Scalabrin

Le strade, di notte, devono essere vuote.

Questo mantra  ha accompagnato il lockdown da Covid-19, facendo dimenticare in molti casi le persone che in strada ci lavorano, le/i sex workers.

Nei Paesi dove questa professione viene riconosciuta e legittimata, *le sex workers hanno vissuto una quarantena, tutto sommato, tranquilla. Ma cosa è successo in quei Paesi, come il nostro, in cui il lavoro svolto da queste persone non solo non è riconosciuto, ma è ancora altamente stigmatizzato?

Qui nonostante sia illegale, il sex work viene praticato ugualmente nell’indifferenza generale, come se un problema ignorato fosse un problema in meno.

In questo modo abbiamo però lasciato via libera ai trafficanti, che per decenni hanno spostato corpi da un Paese o da un continente all’altro come fossero pacchi da smistare: donne, uomini, persone trans*, a volte persino bambin*. 

Strappandol* dalle loro famiglie, costringendol* a vendere il loro corpo, ignorando e negando i loro bisogni, la loro umanità.

L’arrivo del Covid-19,, ha illuminato le zone d’ombra e aggravato ancora di più la situazione. Il distanziamento sociale ha salvato la vita della maggioranza, complicando nel contempo quella di chi abita il margine. Attendere è diventata la normalità e il paesaggio si è fatto vuoto, proprio come le strade e i nostri conti bancari, aumentando il bisogno di ammortizzatori sociali quanto e più di prima.

L’indifferenza, il perbenismo, la morale, i pregiudizi in cui siamo immersi come società ci impediscono di riconoscere quella che, per citare un adagio entrato nell’immaginario collettivo, è la «professione più antica del mondo». Il nostro stigma ha fatto una strage e le vittime, ancora una volta, sono state coloro che erano già in pericolo. 

Non riconoscere e tutelare il lavoro delle e dei sex worker significa non permettere loro di usufruire dei servizi di base di cui tutti abbiamo avuto bisogno in questo periodo.

*le sex workers non hanno avuto la cassa integrazione. 

*le sex workers non hanno avuto accesso alle cure di emergenza.

*le sex workers in transizione non hanno avuto accesso alle cure ormonali.

*le sex workers, in alcuni casi, non avevano una casa in cui ripararsi. 

*le sex workers non hanno avuto il nostro stesso diritto di sopravvivenza. 

Le associazioni di categoria hanno dovuto combattere una battaglia piuttosto solitaria, promuovendo raccolte fondi e iniziative a sostegno, ma i soldi raccolti non bastano, nemmeno quelli arrivati da Papa Francesco. Sono misure palliative, che tamponano ma non risolvono la situazione. 

Aspetteremo la tragedia prima di muoverci verso una soluzione?

Perché è così difficile riconoscere umanità a un* sex worker? Secondo il moralismo diffuso, fare la puttana non è un lavoro, ma un abominio. Un altro versante dello stesso moralismo sembra  sostenere  che nessuno vada abbandonato, le persone debbano essere aiutate e dovremmo  fare  agli  altri quello che vorremmo fosse  fatto a noi. La morale collettiva dice anche che nessuno va abbandonato, che tutti vanno aiutati, dice di fare agli altri quello che vorresti fosse fatto a te. 

Di fronte alla questione del sex work, questo moralismo rivela la sua incoerenza.

Tutte noi vogliamo vedere riconosciuto il nostro diritto di lavorare e, più in generale, la nostra libertà. Tutte le  lavoratrici meritano di sopravvivere, anche in un momento complicato come questo. 

Tutt*.

Anche *le sex workers. 

Non solo noi. 

 Per sopravvivere tutte però è necessario modificare questa logora, accecante mentalità che ci spinge a stigmatizzare *le sex workers: solo così si potranno eliminare mercati illegali, tratte, soprusi e violenze.

È necessario immaginare un mondo dove le persone – se lo vogliono – possono esercitare la professione del* sex worker liberamente, in regola, in sicurezza, con piena dignità, alla pari di tutti i lavoratori.  

È necessario  riconoscere l’umanità di chi ci sta a fianco. 

Soprattutto quando le strade sono vuote.

Pubblicato sul numero 56 della Falla, giugno 2020