La sensazione che provo quando penso al disegno di legge sulle unioni civili e le convivenze attualmente in discussione al Senato è quella di essere finito in un tranello. E ho l’impressione che sia una sensazione comune all’interno della nostra comunità. Perché – ammettiamolo – quello che ci stanno offrendo è umiliante, qualcosa che sappiamo dovremmo rifiutare, ma anche – e qui sta il tranello – qualcosa che sappiamo di non poter rifiutare. Il ddl noto come “Cirinnà”, dal cognome della sua prima firmataria, non è ciò che vorremmo, non è quello che ci spetta, e, tuttavia, è qualcosa che dobbiamo augurarci venga approvato. Una bella fregatura.
Se approvato, il ddl introdurrebbe l’istituto delle unioni civili per le sole coppie formate da persone dello stesso sesso. Esso, inoltre, introdurrebbe una disciplina delle convivenze, che si applicherebbe, a prescindere dal sesso delle parti, alle persone iscritte all’anagrafe come membri di una stessa famiglia.
La prima cosa da rilevare sulla parte che ci riguarda specificamente, quella delle unioni civili, è che il modello a cui il ddl si rifà non è quello francese dei PACS – un istituto universalistico, aperto a tutte le coppie, che si affianca al matrimonio, anch’esso oggi aperto a tutte le coppie – ma quello tedesco, che prevede due istituti distinti, entrambi discriminatori: il matrimonio per le coppie formate da persone di sesso diverso e le unioni civili per le coppie formate da persone dello stesso sesso.
C’è chi ha evocato la formula “separate but equal”, invitando a non farne una questione di forma, ma vale la pena ricordare che, quand’anche quella formula fosse stata evocata a proposito, non sarebbe una così bella cosa: il segregazionismo, di certo, non lo era. Per di più quella formula è stata evocata a sproposito: il regime che il ddl Cirinnà finirebbe per istituire sarebbe piuttosto un regime del “separate and unequal” o, meglio ancora, del “separate and inferior”. Le persone unite in un’unione civile sarebbero, infatti, escluse da alcune opportunità di cui godono le persone unite in matrimonio, tra cui la più importante è certamente l’opportunità d’accedere all’adozione legittimante.
Sul piano simbolico il fatto che oggi la legge non riconosca in alcun modo le relazioni affettive tra persone dello stesso sesso significa che lo Stato non attribuisce loro valore alcuno. Attribuendo un valore a quelle relazioni, anche se non un eguale valore, l’approvazione del ddl Cirinnà costituirebbe un miglioramento. Tuttavia, l’istituto che si prospetta all’orizzonte, più che un istituto distinto dal matrimonio, si profila come un vero e proprio “matrimonio di serie B”: il fatto che le coppie formate da persone di sesso diverso non possano accedervi, paradossalmente, lo conferma.
Eppure che il ddl Cirinnà sia votato, e che lo sia nella forma con cui è emerso dalla discussione in commissione, è quanto di meglio possiamo al momento sperare. Il lusso di rispedirlo al mittente ci è precluso. Se la posta in gioco fosse solo simbolica, l’umiliazione che quel ddl rappresenta per la nostra comunità e per le nostre famiglie sarebbe intollerabile. Quando la posta in gioco è solo simbolica si impone la logica del “o tutto o niente”. Ma la posta in gioco non è oggi solo simbolica. In gioco vi sono anche interessi che meritano di essere tutelati. Urgentemente. Vi sono persone anziane e/o malate che attendono ormai da tempo uno strumento per tutelare i propri cari prima di lasciarli. Vi sono bambini che corrono il rischio di essere allontanati da quelli che sono i loro genitori a tutti gli effetti tranne quelli giuridici. Il tempo è un lusso che quelle persone non possono concedersi.
Ed è proprio sulla questione dei minori che il dibattito sul ddl Cirinnà si è concentrato. L’art. 5, infatti, estenderebbe anche alle persone unite in un’unione civile la possibilità di accedere all’adozione co-parentale, la stepchild adoption, l’adozione non legittimante de* figli* del* partner. Su quell’articolo si è scatenato un putiferio.
All’interno e all’esterno del Parlamento persone incapaci persino di pronunciare due parole in lingua inglese hanno sparato a zero sulla nostra capacità di esseri genitori con toni di rara violenza. L’hanno fatto appellandosi all’autorità della religione, di superate dottrine psicoanalitiche e di “esperti” dal dubbio profilo scientifico ma di chiara nomina politica, con la connivenza di quelli che dovrebbero essere i più autorevoli mezzi di informazione del Paese.
È stato messo al centro del dibattito un tema, quello della gestazione per altri (GPA), che con il ddl in discussione non c’entra nulla. Quel disegno, infatti, non modifica la normativa vigente in materia. Fallito il tentativo di sabotare il percorso verso le unioni civili fomentando la paura nei confronti dell’“ideologia gender”, si è puntato tutto sul tema della GPA: un tema difficile, discusso persino all’interno della nostra comunità, come dimostra il dibattito lanciato da La Falla a dicembre, che prosegue in questo numero.
Ebbene, non distinguere tra adozione co-parentale e GPA significa alimentare gravi confusioni. E non perché la maggioranza dei minori che beneficerebbero dell’adozione co-parentale non sono nati da GPA (cosa peraltro vera), ma perché anche i nati da GPA hanno diritto a vedere riconosciuti i propri legami con quelli che sono nei fatti i loro genitori. Quel diritto è garantito ai figli nati da GPA che vivono con coppie formate da persone di sesso diverso, che attualmente sono la maggioranza. Negare lo stesso diritto ai minori che vivono con coppie formate da persone dello stesso sesso è una discriminazione che solo l’omofobia può spiegare.
La cosa più spiacevole è osservare come una parte del femminismo italiano si sia prestato a questo sporco gioco sui diritti delle persone omosessuali, che colpisce anche, e soprattutto, le donne omosessuali, quasi che le lesbiche, come ha scritto Monique Wittig, non fossero donne. Le relazioni tra il movimento LGBT+ e il femminismo non sono sempre state facili, soprattutto nel nostro Paese, caratterizzato da un’importante tradizione femminista, quella del femminismo della differenza, che non ha mai fatto veramente i conti con il genere e ha sempre, anzi, dato prova di un certo essenzialismo. Lo riconosceva già Mario Mieli nei suoi Elementi di critica omosessuale. Speravamo le cose oggi fossero diverse. La sensazione, invece, è che una parte forse minoritaria ma comunque consistente del femminismo d’antan voglia far pagare agli uomini omosessuali ciò che non è riuscita a fare pagare ai maschi eterosessuali, i quali, prontissimi, non hanno perso l’occasione storica di schierarsi al loro fianco in un’alleanza alquanto improbabile.
Chiediamoci, in conclusione, che impatto avrebbe l’approvazione del ddl Cirinnà su quella che rimane la nostra vera battaglia, quella per l’eguaglianza. È possibile, infatti, che i costi non siano trascurabili. Se oggi il Parlamento sta discutendo questo ddl è soprattutto perché la magistratura, italiana ed europea, glielo impone, minacciando di intervenire al suo posto. Il rischio è che una volta eliminate le lacune segnalate dalla magistratura – e il ddl Cirinnà potrebbe colmarle – debba passare molto tempo prima di poter fare nuovi passi avanti. Potrei sbagliarmi. In altri Paesi non è stato così: le unioni civili hanno spianato la strada al matrimonio egalitario. Ma non ovunque. E se c’è una cosa che le vicende di questi giorni dimostrano è che quella di seguire l’esempio dei Paesi più virtuosi non è certamente una tradizione italiana.
pubblicato sul numero 13 della Falla, marzo 2016
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