L’AGEISMO NELLA PARTECIPAZIONE POLITICA

di Tin Li Oca

«Non sei mai troppo vecchio per essere un attivista». Così recitava lo slogan di Greenpeace. Ma è davvero così? Chi deve studiare, chi deve votare, chi deve lavorare, chi deve andare in pensione: gran parte del vivere sociale ruota attorno all’età. I pregiudizi e le barriere basate sull’età anagrafica frenano molte persone dal prendere decisioni o limitano la loro libertà. Tra le discriminazioni più sottili e pervasive delle società contemporanee si può infatti nominare l’ageismo. Come si riflette questa dinamica nell’attivismo politico?

L’età può avere implicazioni diverse a seconda che sia troppo acerba o troppo matura. Per quanto riguarda il primo caso, a parte il cliché dell’entusiasmo giovanile, essere politicamente impegnate è più facile quando si ha tempo e si è immerse in un ambiente culturalmente vivace. Eppure si presentano problemi sia interni alla comunità politica di riferimento sia esterni nel raccontare la propria attività: nel primo caso ci si trova spesso schiacciate nella figura del* neofita inascoltat*; nel secondo invece è facile vedersi cucito addosso lo stereotipo dell’adolescente ribelle. Soprattutto, in quest’ultimo caso, quando ci si trova a confrontarsi con persone più grandi e di differente veduta politica. Facile buttarla sempre sul «si, si, vabbè… sei troppo giovane per capire», con un misto di superficialità e sprezzo.

Per chi ha qualche anno in più le difficoltà possono esser dovute alla carenza di energie e di tempo a disposizione, spesso ridotto per motivi di lavoro e altri impegni. Ed è questo un punto in cui si incrociano due aspetti ostativi alla partecipazione politica: da un lato i problemi legati all’età di cui si sta parlando, dall’altro uno strutturale problema di classe. Se si è costrette in un lavoro full time, magari neanche appagante, vittime della precarietà economica, allora non sarà certo facile impiegare altre energie all’interno di un consesso politico, che di energie ne richiede eccome. Nel caso di particolari forme di attivismo, anche quelle riconducibili alla rivendicazione di diritti civili magari LGBT+ e non solo, un problema non da poco è la difficoltà di far incontrare quella differenza di vedute insita nel problema generazionale. È questo un altro aspetto dell’ageismo che, in questi termini, è particolarmente presente nella nostra comunità. Quante di noi vedendo entrare in discoteca qualcuno con un bel po’ di anni in più della media, ha fatto battute, pensando che fosse fuori luogo? O quante volte si è sentita ripetere una frase, per carità scherzosa, del tipo: «Oddio, ho 25 anni, ormai sono decrepita»?. Si tratta di qualcosa che investe l’ambito relazionale ancora prima di quello dell’attivismo: e per questo è un meccanismo particolarmente difficile da disinnescare.

All’interno dello stesso panorama associazionistico LGBT+ ci si trova spesso di fronte a gruppi di socializzazione suddivisi per limiti d’età, alle volte molto vincolanti. Si pensi alle dichiarazioni del responsabile area giovani dell’Amsterdam Pride 2018, il quale riferì in un’intervista che le persone over 20 fossero particolarmente mal viste in quello spazio. All’estremo opposto basti notare la difficoltà nel raggiungere persone vicine alle terza o quarta età. La sfida che ci si deve porre, e che forse può aiutare almeno in parte a risolvere questo problema, è quella di mettere in campo un dialogo intergenerazionale serio e impegnativo, per condividere innanzitutto esperienze e sensazioni distanti, creando un senso di comunità e di intenti comuni. A partire da quel punto, la partecipazione politica potrebbe scoprirsi essere il più automatico dei passi successivi. Da una rete di comunità alla società tutta.

Pubblicato sul numero 58 della Falla, ottobre 2020

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