UNA STORIA PER USCIRE DALL’INVISIBILITÀ

Appartenere al mondo LGBT+ spesso significa portarsi appresso un fagotto pieno di sassi. Non essere stati compresi, voluti, amati. Gratis, in più rispetto agli altri. Questo nelle nostre latitudini. In tante altre parti del mondo la situazione purtroppo è abissalmente peggiore. Esistono leggi che condannano anche soltanto un atteggiamento o un’apparenza non ritenuti consoni ai parametri eterosessuali. Flagellazione, prigione o morte. Condannano in pratica alla non-esistenza, visto che l’unico modo per sopravvivere è quello di nascondersi.

In uno di questi paesi è nata una ragazza che non sapeva di avere inclinazioni particolari. Aveva grandi sogni per essere una donna, in una famiglia numerosa di maschi. Voleva andare a scuola. Una zia l’ha portata a casa sua, in città, con la promessa di pagarle gli studi. A scuola alla fine non ci è mai andata: ha condiviso la casa e il tempo con la zia, che se l’era presa particolarmente a cuore. L’aveva guidata piano verso un’affettività tutta al femminile. Solo amiche frequentavano la casa, mai alcun uomo. Le trasmettevano brutte sensazioni riguardo agli uomini. Intorno ai quindici anni le capitò di comprendere attraverso un telegiornale che ciò che accadeva in casa sua era considerato contro natura e punibile con quattordici anni di prigione. Tacque. Due anni dopo alcune delle amiche della zia furono arrestate; non si sa in quali condizioni arrivarono alla prigione, né che fine fecero. La zia rimandò la ragazza dai genitori al villaggio, dove raccontò tutto alla mamma, mentre padre e fratelli vennero tenuti all’oscuro. Per l’onore della famiglia non si poteva sapere cosa sarebbero stati disposti a fare.

Ancora la parola “omosessuale” non faceva parte del vocabolario della ragazza, ma sapeva di non aver altra scelta che fuggire. Spesso, al sospetto o a prove conclamate di omosessualità, si mobilita la popolazione a punire, prima che possa intervenire la polizia. L’una e l’altra di solito sono identici in durezza e accanimento.

La ragazza è allora affidata a una donna che sembrava mandata dal cielo. Le promise protezione e un lavoro in Europa, lontana dai pericoli. C’è chi si costruisce un business sulla necessità altrui di scappare: intere reti di persone, che si estendono tra continenti, con lo scopo di adescare, trasportare, infiltrare i cosiddetti irregolari o illegali. Si chiama tratta di esseri umani. E raramente gli esseri umani trattati ne hanno consapevolezza, in quanto sono semplicemente persone in fuga. Significa urgenza di andar via, necessità di rifarsi la vita e mandare indietro soldi, per la famiglia e per pagare chi le ha aiutate.

Per fare una lunga storia molto breve, otto anni dopo questa stessa ragazza, che aveva ancora il sogno di imparare a leggere, riesce a scappare da uno stato di schiavitù al servizio dei maschi eterosessuali di ogni nazionalità. Trova chi l’ascolta, senza pregiudizi e con tanta voglia di darle possibilità di riscatto. La aiutano a fare domanda di protezione internazionale, lo stato che viene concesso a chi non è protetto dal proprio paese contro i soprusi che vanno contro la Convenzione di Ginevra. Purtroppo, naturalmente, chi proviene da un paese del genere non è in possesso di foto, documenti o tessere Arcigay  che attestino la veridicità delle proprie parole. La parola è l’unica prova che hai a tua disposizione.

La ragazza è stata sottoposta a vari colloqui, interrogatori, accertamenti. Nonostante l’istruzione limitata, la mancata conoscenza dell’esistenza di un intero mondo LGBT+ e molti sensi di colpa e di inferiorità, è riuscita a raccontare dettagliatamente, in termini di spazio e tempo, la sua vita. Più volte. Senza mai contraddirsi. Sembra facile, ma se una storia non è tua, cambia colori e dettagli ogni volta che la racconti.

La Commissione adibita a decidere se hai o no diritto a qualche forma di protezione, e quindi a un documento riconosciuto, ha decretato che la sua storia non aveva fondamento. Era imprecisa, lacunosa. In pratica, essere in possesso dei mandati d’arresto delle amiche della zia sarebbe stato di aiuto.

Essendo però ormai la questione della tratta un argomento all’ordine del giorno e riconosciuta come una piaga da cui liberare le donne, le viene accordata protezione per motivi umanitari. Uno status che esiste solo in Italia, il più basso e sconfortevole di tutti. Ti dà un documento valido per un anno e, se non trovi presto un lavoro – cosa improbabile di questi tempi anche per gente scolarizzata – e un domicilio fisso – impossibile se non hai amici – non viene rinnovato.

Appartenere però a una categoria di persone perseguitate nel proprio paese per una serie di motivi, tra cui anche la propria inclinazione sessuale, comporta il diritto allo status di rifugiato o asilo politico. È come dire, se ti rimandiamo a casa ti uccidono al varco, non per quello che eventualmente fai, ma per quello che sei. E lo sei anche se non hai le parole per descriverlo. Hai vissuto la vita in un modo senza che qualcuno ti chiedesse o spiegasse qualcosa.

Su queste basi Antonietta Cozza, brava avvocata votata al diritto e non al guadagno, ha preso in mano la causa della ragazza. Al ricorso, il tribunale ha riconosciuto congruenza e credibilità e di conseguenza lo status di rifugiato della ragazza. Ma in Italia le cose non sono mai semplici. L’avvocatura di Stato ha fatto appello, richiamando in causa la decisione e le motivazioni del tribunale. A questo punto, molti avvocati si fermano. Troppo dura e difficile da sostenere economicamente. Chi ti paga, una richiedente asilo nullatenente?

Il processo è però proseguito e finalmente la corte d’appello ha inderogabilmente riconosciuto alla ragazza lo status. Riconoscendole grande coerenza e integrità, e forza, per sopportare tutto questo.

Ha nel frattempo imparato la parola “omosessuale”, a forza di sentirla dire. Ma se le chiedi: “Sei omosessuale?” ti dice con folgorante sincerità: “Non saprei dirlo. Ma ho sempre vissuto così. Ed è quanto basta nel mio paese.”