QUANDO ESSERE DONNE È LA COLPA PIÙ GRANDE
L’ondata di mascolinità tossica e di violenza che si è scatenata nei confronti di una ragazza di 25 anni che, dopo un anno e sei mesi di prigionia tra Kenya e Somalia, ha potuto riabbracciare la sua famiglia, è uno specchio preoccupante dell’Italia.
Non è la prima, difficilmente sarà l’ultima. E questo perché siamo un Paese che cova un grandissimo odio per le donne e che le odia soprattutto quando queste non rientrano nel canone di donna remissiva.
Prima di Aisha – che fu Silvia, ma ora è Aisha e dovrà essere lei, nel caso, a dirci di tornare a chiamarla Silvia – ce ne sono state tante: donne che nella loro vita hanno deciso e sono riuscite in qualche modo ad affermarsi. Prendiamo l’inviata Rai a Pechino Giovanna Botteri e il pesante body shaming attuato da Striscia la notizia.
Altre quattro ragazze sono state, prima di Aisha, vittime di sequestro in circostanze simili.. Nel 2004, a Baghdad, Simona Torretta e Simona Parri. «Oche giulive» fu il titolo che riservò loro Il Giornale. La loro colpa? Aver dichiarato di voler tornare a lavorare là ed essere sbarcate a Fiumicino indossando abiti troppo colorati. Non c’erano i social, ma un commento sulla rubrica Italians di Servegnini dell’epoca vale quanto cento tweet: «Non è che il milione di euro se lo sono intascate loro con qualche complice terrorista? Carriera di una Simona: dipendente del ministero della Difesa con D’Alema; pubblicista dell’Unità; 8 mila euro al mese per fare la volontaria e la «resistente». Un domani (già proposte ci sono state) deputata? Con questa catena che deve arrivare a tutti gli italiani chiediamo una colletta di 50 centesimi a testa da dare alla resistenza irachena perché si riprendano le due Simone, a patto che stavolta se le tengano anche». La catena girò, via sms e sui blog, e Paolo Attivissimo, noto debunker, cercò di sbufalarla già all’epoca.
Aisha (che fu Silvia), Giovanna, Simona, Simona, Greta, Vanessa, Carola, Laura, Cécile, Liliana e tutte le altre. Alcune colpevoli di essere andate ad «aiutarli a casa loro», di averci rimesso la libertà e, ciononostante, di essere tornate sorridenti, provate, ma sorridenti e pronte a giurare di voler tornare presto ad aiutare gli ultimi; hanno la colpa, come scritto da Gramellini il 22 novembre 2018, per poi affermare ieri di aver scritto un incipit infelice, di dare adito a chi, a ragione secondo il giornalista, «pensa, dice o scrive che la giovane cooperante milanese rapita in Kenya da una banda di somali avrebbe potuto soddisfare le sue smanie d’altruismo in qualche mensa nostrana della Caritas, invece di andare a rischiare la pelle in un villaggio sperduto nel cuore della foresta». Le altre, invece, colpevoli di essersi ritagliate il loro posto in un mondo di maschi.
La grande colpa comune però è una: sono donne. Ha scritto Flavia Perina su Linkiesta: «Non c’è niente da fare: l’uomo che si impegna in un’impresa pericolosa – che si arruoli nella Legione Straniera o coi curdi del Rojava – è un eroe; la donna che aderisce a una causa morale di qualunque tipo è una sventata, una scema, una poveretta inconsapevole e manipolata(…)». E non importa la sua passata militanza politica, ha centrato il punto con precisione millimetrica.
Se non siete convint*, provate a fare una piccola ricerca su quanti sono stati gli uomini, intesi come maschi, rapiti e rilasciati sotto corrispettivo di riscatto e cercate le polemiche annesse (spoiler: non ce ne sono). Se sotto sotto pensate che «se la sono cercata», se leggete l’inchiesta di Wired sul revenge porn e nessuna delle cose succitate o scritte fino a qui vi crea fastidio, senso di nausea o voglia di migliorare voi stessi, tranquilli, state solo dimostrando la nostra tesi: siete i soliti misogini di sempre.
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