Mi chiamo Antonia e ho avuto un aborto spontaneo.
Tu che stai leggendo potresti essere una di quelle persone che dicono «Ecco. Anche lei», oppure una di quelle che si chiedono «E quindi?».
Ciò che forse non immagini è che il divario tra le due reazioni è direttamente proporzionale al dolore sperimentato: più il divario è ampio, ovvero quante più persone ignorano ciò che implica un aborto spontaneo, più aumenta la solitudine di chi lo vive.
Il 25% delle gravidanze termina involontariamente entro le prime 12 settimane. Significa una donna su quattro, eppure quasi nessuno conosce queste cifre. Io non le conoscevo, prima di entrarne a far parte: avevo solo una vaga idea del fatto che le primipare abbiano più probabilità di non terminare la gravidanza, indipendentemente dall’età. 

Quando sono entrata mio malgrado in questa statistica ho sperimentato l’appartenenza a uno dei gruppi più ignorati – ancor di più dell’essere donna, ancor di più dell’essere lesbica. Dentro l’ospedale regna l’indifferenza: a nessun medico interessa la tua perdita perché nella sua visione sei solo una delle tante, una su quattro. Fuori dall’ospedale, le poche persone interessate al tuo dolore credono sia meglio non parlarne perché è un argomento tabù, non c’è modo di affrontarlo con la prospettiva di una soluzione: tutto ciò che comunica è doloroso, quindi meglio sorvolare sulla questione.
Il fatto che queste ultime siano “poche persone”, inoltre, dipende dalla regola-non-detta-ma-conosciuta-a-chiunque del non rivelare mai la tua gravidanza prima dei tre mesi. Perché? Perché potrebbe non proseguire oltre il primo trimestre, certo. Ma cosa ci sarà mai di male nell’annunciare qualcosa che poi non prosegue? Apparentemente niente, se non fosse che il mondo non vuole avere a che fare con la non-gravidanza. In tutti i sensi. Non vuole avere a che fare con le donne che non desiderano la maternità, non vuole avere a che fare con chi decide consapevolmente di abortire, e non vuole avere a che fare nemmeno con chi rispetta il desiderio collettivo della riproduzione ma – per qualche mistero biologico che va oltre ogni agenda di partito – non ci riesce.

In un Paese in cui la classe politica sostiene che «la donna si realizza pienamente con la gravidanza» e che ha inventato il Fertility Day con quegli aberranti e ridicoli manifesti incitanti le donne a darsi una mossa (sic!), mi sarei aspettata più conforto per la mia mancata realizzazione del volere collettivo.
Invece, non solo ho ricevuto un lapidario «Succede» da tuttə lə quattro ginecologə che mi hanno visitato in quella settimana terrificante, ma il mio dolore non è stato nemmeno giudicato abbastanza considerevole da poterlo affrontare insieme alla mia compagna: mentre poche ore prima eravamo a pranzo in un ristorante con altre trenta persone che parlavano e masticavano a bocca aperta, lei non è potuta entrare con me in un ambulatorio con tre medici vaccinati e la mascherina indosso.

Quello che la tipologia di persone «E quindi?» ignora è che aborto spontaneo non significa soltanto ricevere il verdetto «Mi spiace, signora, il suo feto non c’è più»; significa spesso forti, dolorosi crampi, a volte intervento in ospedale con anestesia totale (raschiamento), altre volte nessun intervento ma la visione di moltissimo sangue che esce e si porta dietro feto, camera gestazionale e tutto ciò che costituiva il tuo più grande sogno, mentre tu indossi assorbenti post parto che sulla confezione raffigurano una donna felice con lə suə bambinə.
Non proprio una passeggiata, insomma. Infatti, di quel 25% di donne che subiscono un aborto spontaneo, un terzo manifesta sintomi di ansia, stress post-traumatico e depressione da moderata a grave, alcune fino a 9 mesi dopo la perdita e oltre.
Quante di queste conseguenze patologiche sono direttamente legate alla pressione psicologica che la società impone al corpo delle donne, alla loro concezione come madri? E quante sono impossibili da affrontare senza il supporto  – personale e collettivo – di altre donne?

Sul piano della gravidanza, patriarcato e femminismo sono le due forze contrapposte che si giocano la partita sul terreno del volere/non volere essere genitore; così, quando hai il piede in due scarpe, finisce che ti ritrovi a camminare scalza sui ceci. Da femminista non vuoi che un feto (men che meno un embrione) venga chiamato bambino/a; da donna che lo desidera vorresti parlare della tua perdita esattamente con quel termine, perché la cifra del tuo dolore sta nel desiderio fortissimo che hai provato di poter pronunciare quella parola. Se poi sei in una coppia lesbica, nella maggior parte dei casi la tua ricerca di gravidanza ha implicato mesi di esami di controllo, diversi viaggi all’estero e una quantità ingente di soldi versati a chi prometteva di rendere te e la tua compagna due mamme. E non sempre hai una seconda possibilità (anche se i medici ti trattano come se ne avessi infinite).

Foto Barbieri Mirko/LaPresse13-10-2018 Verona

Recentemente la cantante Bianca Atzei ha condiviso pubblicamente la sua interruzione involontaria di gravidanza con il commento «Mi sentivo già mamma». Da femminista ho sempre storto il naso di fronte a espressioni di questo tipo, certa che andassero solo ad alimentare una narrazione della gravidanza pro-vita, quindi sessista e pericolosa. Oggi invece so che non c’è niente di più vero.
Ti senti già mamma – qualora tu desideri esserlo – perché tutto il tuo corpo trasmette segnali nuovi, perché la tua mente è in ascolto costante e ha già attivato la modalità protezione, ma anche perché la pianificazione di ogni singolo aspetto della tua vita, dal cibo che mangi alle vacanze che prenoti, è in funzione della nuova persona di cui ti stai già occupando come mamma.

Quando ti senti mamma e all’improvviso non lo sei più, è un vero e proprio lutto. Ma dei lutti siamo abituate a parlarne con parenti e amiche, su questo invece ci sentiamo spinte da ogni parte a viverlo in segreto, in silenzio.
Se non possiamo parlare di una cosa perché considerata tabù, significa che dobbiamo vergognarci di questa cosa. Vergognarci di non essere state in grado di mettere al mondo unə figliə, così come vergognarci di soffrirne, non è per niente femminista.

Se hai affrontato un aborto spontaneo negli ultimi 5 anni, partecipa a questo sondaggio sull’assistenza in Italia all’interruzione involontaria di gravidanza. Le tue risposte potrebbero – si spera – aiutare a migliorare il sistema di assistenza ospedaliero per altre donne in futuro.

https://it.surveymonkey.com/r/HP-INSTANT