di Silvi Degasperi e Valentina Pinza

«Il 1° dicembre è l’unico giorno dell’anno in cui tutti si ricordano che quando scopiamo esiste l’Hiv e dobbiamo usare il preservativo per forza e se non lo usiamo sbagliamo e se sbagliamo siamo passibili di un doveroso giudizio morale sui nostri comportamenti sessuali. Nessuna informazione su cosa comportino delle diagnosi tardive, sul perché le nuove diagnosi di Hiv riguardino maggiormente i maschi, su quali siano le pratiche sessuali a rischio e, banalmente, come vivere la propria sessualità in maniera consapevole».

Salvatore Maugeri è un volontario di Plus dal 2014, l’associazione bolognese che da dieci anni si occupa di prevenzione da IST e si prende cura specificamente delle persone LGBTQ+ Hiv positive. Salvatore è sieronegativo: «Quest’ultima è un’affermazione che adesso posso fare con un grande margine di sicurezza, dato che faccio sesso seguendo il protocollo PrEP (da due anni circa). Prima, quando mi capitava di avere rapporti a rischio, aspettavo anche 5 mesi prima di fare un test. Adesso seguo la PrEP in maniera corretta, non ho rapporti a rischio Hiv, mi testo ogni tre mesi e posso affermare di essere sieronegativo a ogni checkpoint».

Anche Paolo Gorgoni è un volontario di Plus, da quasi dieci anni. Vive a Lisbona, dove fa parte della commissione AIDS istituita dal Comune nell’ambito di un’iniziativa internazionale, la Fast Track Cities. Paolo è un artista multidisciplinare che ha tra i suoi obiettivi quello di aprire, nel mondo della cultura, degli spazi di visibilità, empowerment e auto-rappresentazione di persone, soggettività ed esperienze sieropositive e sierocoinvolte. 

«Per me, per molte di noi, il 1° dicembre è una specie di strano Natale, o forse più come una versione sierocoinvolta del 25 Aprile: un momento di memoria, ma anche di presenza e, in generale, un momento di grande lavoro, organizzazione, preparazione artistica e un gigantesco carico emotivo. Ah, sì, vivo con Hiv dal 2010, ormai dimentico pure di dirlo.»

Oggi, nella Giornata Mondiale contro l’Aids, abbiamo deciso di intervistarli.

Quando avete deciso di diventare volontari di Plus e cosa vi ha spinto a farlo?

S. M. Ho conosciuto nella mia città natale, Catania, uno dei fondatori di Plus, Stefano Pieralli, in quello che fu il primo Pride dedicato al tema Hiv: si chiamava Un Pride in Plus. Era il 2013 e Plus era l’ospite d’onore. Ciò che mi ha spinto a diventare un volontario è stato il fatto che io di Hiv non ne sapevo nulla e ho capito subito che l’associazione era un’avanguardia: parlavano già nel 2013 del concetto U=U e molte persone non sanno nemmeno oggi cosa sia, figuriamoci 8 anni fa, di PrEp e della gestione di un centro community based, l’attuale BLQ Checkpoint. 

P. G. Quando ho scoperto di avere l’Hiv. Un caro amico mi ha suggerito di unirmi a un gruppo che stava nascendo e mi decisi, mosso anche dall’ammirazione che provavo per Sandro Mattioli, all’epoca l’unica persona di Plus che conoscevo. Il bisogno era quello di poter condividere la mia esperienza in modo fruttuoso e imparare da quelle degli altri. Ho trovato una squadra nella quale, senza saperlo, cercavo una famiglia. E viceversa. 

Com’è oggi, nel 2021, la vita di una persona Hiv positiva e qual è il livello di stigma a cui è sottoposta?

S. M. La qualità di vita di una persona Hiv+ in terapia oggi dipende dal livello di stigma a cui è sottoposta. Ed è ancora alto. Alcuni ragazzi mi hanno detto che pensavano che io fossi Hiv+ in quanto volontario Plus e quindi, siccome mi percepivano come non sano – è questo il gergo che alcuni ragazzi utilizzano – hanno preferito non scopare con me. Ovviamente non ho detto loro di essere negativo. Non mi interessa essere sano agli occhi degli altri. Lo stigma c’è e si percepisce, anche all’interno della stessa comunità LGBTQ+ che, mediamente, tratta il tema poco e male. Il giudizio morale nei confronti delle persone Hiv+ è un retaggio culturale che le istituzioni non hanno mai cercato di cambiare. 

P. G. Stigma è una parola minacciosa, a partire dal suono: tutte le volte che la leggo mi fa pensare alle ferite nei palmi delle mani, persino mentre la scrivo le visualizzo. La cosa su cui riflettiamo poco è che lo stigma è il sistema di pensiero che genera pratiche discriminatorie. Non è semplicemente la somma delle azioni proattivamente perpetrate contro la persona o il gruppo di persone, ma il fondamento di una mentalità che rende tali pratiche socialmente comuni e accettate, anche se danneggiano direttamente e indirettamente la vita delle persone o delle comunità colpite. Lo stigma non viene solo da fuori, perché noi, prima di essere sieropositive e sierocoinvolte, spesso venivamo dallo stesso terreno di chi oggi ci discrimina e dunque lo stigma ce l’abbiamo, ce l’abbiamo avuto e forse lo avremo anche interiorizzato. Lo stigma oggi è pesante, esiste ancora, resiste anche nelle comunità LGBTQ+, ma abbiamo più strumenti che mai per lavorarci insieme e uscirne tenendoci per mano. 

Come sono cambiate le condizioni di una persona Hiv+ grazie alle nuove terapie farmacologiche?

S. M. È evidente che le terapie hanno cambiato in meglio la vita di una persona Hiv+. Poco fa accennavo al concetto Undetectable = Untransmittable e più la scienza progredisce, più le condizioni di salute delle persone sieropositive migliorano in modo esponenziale, anche proporzionalmente alla scoperta di farmaci con un alto grado di tollerabilità e aderenza. In futuro le nuove modalità di assunzione dei farmaci, la terapia iniettiva detta long active, avranno un grande impatto migliorativo nella vita di una persona Hiv+. 

P. G. La vita di una persona con Hiv oggi dipende dal suo posizionamento, a più livelli: se parliamo del cittadino italiano medio con accesso garantito a tutti i servizi necessari a restare in salute, abbiamo a disposizione farmaci tollerabili, sicuri ed efficaci che ci permettono non solo di vivere bene e a lungo, ma ci impediscono anche di trasmettere l’Hiv ai nostri partner. Spesso si tratta di una pillola al giorno ed esami semestrali, ma in genere la terapia funziona velocemente, si diventa portatori di “carica virale non rilevabile” o “undetectable” e non si può più trasmettere l’Hiv. Purtroppo è difficile farlo sapere e ci serve ricordare che ci sono anche altri motivi, oltre alla non infettività, per non discriminare le persone con Hiv. Parliamo innanzitutto di persone e in secondo luogo ci sono infiniti modi di proteggersi dall’Hiv: U=U, non rilevabile uguale non trasmissibile; il preservativo, anche se sembra fuori moda, comunque esiste ancora; la PrEP, almeno per chi riesce ad accedervi.

Tutto questo non limita il diritto di chi ha una viremia rilevabile a restare al riparo da stigma e discriminazioni. Ogni esperienza merita rispetto. 

Qual è l’utenza media che fa riferimento a Plus? È rimasta sempre la stessa o è cambiata negli ultimi tempi?

S. M. Bisogna fare due distinguo. Ci sono persone che si avvicinano a Plus in quanto già Hiv+ e sono maschi di età tra i 40 e i 65+. Partecipano alle nostre iniziative come i Venerdì Positivi, o le domeniche E tu che ne vuoi sapere, o partecipano ai laboratori come HIVoices, o si avvicinano allo striscione del Pride e spesso esprimono la volontà di poter diventare dei volontari. Il target è rimasto sempre più o meno invariato. Poi ci sono persone che scoprono Plus grazie al BLQ Checkpoint, perché vogliono fare il test Hiv o perché sanno che da noi è possibile essere seguiti per la PrEP. Di base è un’utenza di età compresa tra i 25 e 40 anni.

Non vedo un grosso cambiamento di target in questi ultimi anni, ma la differenza di età la dice lunga su come viene percepito il proprio stato sierologico. I dati ci dicono che le nuove diagnosi sono riferite a un target maschile molto giovane

Eppure la questione della visibilità, di avvicinarsi a una associazione come Plus in quanto persona sieropositiva, di confrontarsi con altre persone qualora ce ne fosse bisogno, sembra che resti un’urgenza più delle persone Hiv+ dai 40 anni in su. 

Se hai 25 anni e vuoi fare il volontario da Plus e sei Hiv- è un conto, ma se hai 25 anni e sei Hiv+ e avverti il desiderio di fare il volontario Plus, ci pensi due, tre, quattro volte per incontrarci e proporti. Ritornando alla domanda precedente, il livello di stigma non solo è molto alto, ma a mio avviso viene vissuto in maniera diversa anche a seconda dell’età in cui si riceve la diagnosi e da quanto tempo si è sieropositivi. 

P. G. L’utenza di Plus cambia come cambia la comunità: mi sento di dire che negli ultimi anni siamo riusciti ad attrarre maggiormente – lo spero – e, nel limite del possibile, a rappresentare una parte della comunità LGBTQ+ più vasta rispetto a prima. Alcune delle azioni di Plus sono strategiche non tanto in relazione a orientamenti o espressioni possibili, quanto alla specificità degli andamenti epidemici che richiedono un’azione adeguata e mirata, ma anche operata in modo competente. Perché l’interazione sia alla pari, le persone che si incontrano devono sentire di appartenere alla stessa comunità e la capacità di intervento di un gruppo come Plus cresce nella misura in cui crescono la diversità di esperienze, le storie al nostro interno e la capacità di fare rete con altre realtà cittadine e nazionali.

Di cosa vi state occupando in questo momento e quali sono i progetti di Plus per il futuro?

S. M. Vorremmo implementare i servizi del BLQ Checkpoint che svolgiamo attualmente: l’attività di testing, il sexcheck per la PrEP, HIVoices, e altri servizi che stiamo studiando.

Purtroppo la pandemia di Covid-19 ha rallentato tutti i nostri servizi e i progetti, ma contiamo di ripartire al più presto. 

P. G. Sta uscendo nelle sale il docufilm I’m still here, con la regia di Cecilia Fasciani, che racconta i primi dieci anni di Plus con un approccio multivocale, sia nel senso che vi partecipiamo in tante, ma anche nel senso che lo facciamo intrecciando temi e modalità espressive diverse.

Il lavoro permette di comprendere cos’è Plus nel contesto in cui opera, cosa significa per molte di noi, ma anche quale ci sembra sia un pezzo importante del lavoro da fare: riscrivere fieramente la narrativa contemporanea sull’Hiv all’insegna della visibilità e dell’autorappresentazione. Nello specifico, su questo tema vedrete l‘interazione di me medesima, Paula Lovely, con iniziative in cui arte e attivismo si fondono per diventare semi di cambiamento che possano essere piantati e fiorire fuori dalle conferenze AIDS, dove in genere a noi froce sieropositive non ci vogliono vedere neanche in foto.

E invece ci vedranno, perché siamo favolose.