La crisi climatica è stata innescata dalla specie umana, ma è una generalizzazione che rischia di spalmare le responsabilità anche sui paesi meno ricchi, continuando a esercitare il giogo del colonialismo.

Qualche anno fa una piccola isola è stata sommersa dalle acque del mare: in piedi è rimasta solamente la chiesa, tutta la popolazione ha dovuto lasciare le case, spaventata e sradicata. Fosse successo a Venezia, ci saremmo probabilmente commosse come per l’acqua granda del 2019 che ha generato aiuti speciali, fiumi di parole sui giornali e una lunga serie di documentari. Ma è successo nell’arcipelago di Kiribati, piccola nazione in mezzo all’Oceano Pacifico composta da circa 33 mila isole e abitata da poco più di 120 mila persone. Tra di loro c’è Anote Tong, che sull’isola inghiottita dalle acque è andato a scuola. Oggi, dopo tre mandati da presidente del Paese, è uno dei massimi attivisti ambientali, il «Mahatma Gandhi del Pacifico», come lo ha definito qualcunә. Uno dei suoi principali obiettivi è fare pressione perché la comunità internazionale agisca per limitare le conseguenze del cambiamento climatico, altrimenti nei prossimi anni a sparire dalla carta geografica sarà il suo intero Paese.

Kiribati è al 195° posto su 197 nella classifica del PIL e non ha le stesse risorse delle Hawaii, altro arcipelago pacifico minacciato dall’innalzamento dei mari. Nello stato americano si stanno investendo milioni di dollari per innalzare barriere a difesa delle ville affacciate sull’oceano, mentre a Kiribati si costruiscono dighe con sacchi di sabbia. Basterebbe questa piccola storia a sottolineare la disuguaglianza con cui diversi paesi del mondo devono affrontare la crisi climatica. Ma c’è un aspetto più profondo e ha a che fare con l’idea di antropocene.

Kiribati 2009. Photo: Jodie Gatfield, AusAID

Il termine “antropocene” è stato proposto dal biologo Eugene Stoermer negli anni Ottanta del secolo scorso e reso celebre da un libro del premio Nobel Paul Crutzen. La parola nasce dalla fusione di due parole greche, anthropos e kainos («essere umano» e «recente») e vuole indicare l’era geologica in cui viviamo, caratterizzata per la prima volta nella storia della Terra dall’impatto dell’umanità sugli equilibri del pianeta. Un impatto, si badi bene, che è talmente evidente da lasciare tracce geologicamente rilevanti sulla crosta terrestre. E perciò fattore caratterizzante di una vera e propria era geologica. La questione è ancora in discussione e la International Union of Geological Sciences (IUGS) non ha espresso un parere definitivo sull’adozione del termine.

Tra gli effetti più evidenti dell’azione umana sugli equilibri della Terra c’è il cambiamento climatico, causato – fuor di dubbio – dalle emissioni di gas serra alteranti dovute alla combustione di carbone, petrolio e derivati. Torniamo allora a Kiribati e domandiamoci che ruolo hanno avuto i suoi abitanti in questa trasformazione? Che ruolo hanno avuto le popolazione di Paesi con un’economia povera nel determinare l’antropocene? Quasi nessuno, ma come ricorda Tong ne stanno subendo in massima misura le conseguenze. 

Proprio da questa asimmetria è nato lontano dai riflettori dei media mainstream un pensiero alternativo alla narrazione principale, quella che vede la crisi climatica come responsabilità dell’intero genere umano, e definisce il concetto di antropocene come colonialista. Il ragionamento e il dibattito sono molto variegati, ma la sostanza è che tutto è cominciato con la Rivoluzione Industriale europea: sono state le fabbriche a dare inizio in forma massiccia all’immissione in atmosfera di tonnellate e tonnellate di gas serra alterando il clima del pianeta. Non è quindi l’umanità intera ad aver lasciato sulla Terra la propria impronta indelebile, ma una parte di essa, quella più sviluppata e ricca. Secondo questa linea di pensiero, oggi parlare di antropocene equivale quindi a spalmare anche su chi non ha responsabilità le colpe di una parte.

Un segnale di questa situazione si ebbe nel 2011, quando a Durban, in Sudafrica, si tenne una delle Conference of Parties (COP). Si tratta di incontri periodici della Convenzione sul Clima delle Nazioni Unite e dovrebbero servire a prendere degli impegni sovranazionali per contrastare la crisi climatica e ridurne l’impatto (l’ultima si è tenuta a Glasgow). In occasione di quella conferenza, molti movimenti ambientalisti, il più visibile dei quali è stato Occupy COP17, protestarono di fronte alla sede dell’evento. Erano per lo più esponenti di Paesi meno ricchi delle grandi potenze occidentali che si sentivano frustrati perché la loro voce non era ascoltata, perché sentivano di non essere considerati da chi aveva il potere di decidere davvero. Quella di Durban è stata una delle proteste più forti attorno alla Convenzione sul Clima delle Nazioni Unite ed è stata largamente osteggiata dalle forze dell’ordine e dagli agenti della sicurezza della COP. 

La morale di questa storia è piuttosto semplice: quando dal podio di un evento sulla crisi climatica sentiamo dire che «l’umanità deve cambiare rotta», «l’umanità deve ridurre il proprio impatto», «l’umanità deve fare di più per il clima» dobbiamo ricordare che è in azione una forma di colonialismo. Dovremmo infatti sostituire le occorrenze di “umanità” con “potenze economiche occidentali”, principali responsabili della crisi attuale e ora impegnate nel tentativo di spalmare le proprie responsabilità anche su chi non ha avuto parte nella vicenda. Un colonialismo che si traduce in direttive per lo sviluppo economico dei paesi meno ricchi decise da chi è già sviluppato, in aiuti condizionati dal raggiungimento di determinati obiettivi e così via. 

Una postilla doverosa. Quando si parla di responsabilità dell’Occidente nella crisi climatica non si vuole dire che si è trattato di una scelta deliberata. Per usare una metafora giuridica, almeno fino a un certo punto si è trattato di colpa, senza che ci fosse dolo. Ma è ora doloso che proprio i Paesi responsabili della crisi non stiano facendo un sforzo molto maggiore per aiutare chi maggiormente ne sta subendo le conseguenze. In questa disuguaglianza, forse meno evidente della disparità economica per i potenziali interventi, sta un nodo post-coloniale molto attorcigliato che dovrebbe essere ancor più al centro del dibattito sulla crisi ambientale.

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