App e disimpegno nelle interazioni del nuovo millennio

Nell’era digitale, in un panorama dove ogni contatto può essere filtrato da un veicolo virtuale, anche le possibilità di vivere incontri intimi o sentimentali hanno trovato modo di esprimersi attraverso app.

L’evoluzione tecnologica ha portato l’interrogativo dell’incontro con persone del proprio orientamento sessuale su una prospettiva indubbiamente più facile da affrontare. In particolare fra i giovani che si approcciano per la prima volta al mondo LGBT+, il tramite delle applicazioni spesso diventa una soluzione per vincere la timidezza. Tuttavia sorge spontaneo chiedersi se un utilizzo eccessivo di tale filtro non ostruisca la comunicazione piuttosto che agevolarla, fornendo uno schema di dialogo tanto fisso quanto vuoto.

I neofiti arcobaleno si portano dietro il carico di stereotipi sulla realtà omosessuale prodotti dalla società eteronormata, misti a tutte le incognite e le insicurezze su quello che potrebbe essere il proprio ruolo all’interno di tale realtà. Le applicazioni aprono una prospettiva eterogenea delle situazioni presenti nella comunità e diversi sono per ciascuno gli intenti con i quali ci si iscrive. Tale versatilità fa si che queste matricole possano uscire dalle dinamiche virtuali, ma è così immediato saper esprimere nel concreto la propria emotività? L’ultimo aggiornamento di Grindr prevede un nuovo ventaglio di emoji per rendere più espliciti i messaggi in un contesto che la cyber-psicologa Linda Kaye definisce di per sé asettico. Tuttavia, non è un incentivo sufficiente ad alzare le statistiche sulle coppie nate dall’uso dell’app, che restano del 0,1%, e che per Her raggiunge un ben più alto, ma pur sempre esiguo, 5%.

Inserire il proprio profilo nella piattaforma crea un’aspettativa nei confronti dell’incontro sperato, ma proiettata anche verso una sorta di gratificazione personale nel sentirsi richiesti e approvati, con risvolti che infieriscono su tratti fragili della personalità degli utenti. Le applicazioni richiedono poche informazioni, una sola foto basta, e subito le richieste di chat si accavallano.

Cresce l’autostima e insieme la sovraeccitata necessità di mantenere il tasso di consenso, che in breve rivela la sua superficialità: chat iniziate che si interrompono, richieste di match non accettate, chi scriveva non risponde più. A livello sociale siamo portati all’approccio con maggiore impegno alle persone con cui sappiamo di dover trascorrere più tempo, dunque quando ci si trova a interagire senza l’aspettativa di un lungo termine, l’attenzione è inferiore, soprattutto se la valutazione si basa solo su un catalogo fotografico.

La seduzione, con tutte le sfaccettature dell’attrazione di un corpo in movimento, che parla di sé non solo nell’estetica visiva statica, ma attraverso elementi non traducibili in una foto, si perde. L’applicazione vuole essere il mezzo attraverso cui trovare persone da incontrare, non il modo in cui si decide se qualcuno piace o no. A volte il suo utilizzo assume un aspetto puramente voyeuristico, si accede per vedere chi c’è di nuovo, come se davvero la piattaforma includesse ogni prospettiva.

Su Grindr la mancanza di notifiche spinge a controllare chi è online, a entrare nel profilo per vedere se ci sono nuovi messaggi: l’applicazione diventa quasi onnipresente e il modulo di presentazione che vi si usa si estende anche agli incontri diretti. I meno disinvolti, se al bar vedono una persona con cui vorrebbero mettersi in contatto non si avvicinano, ma aprono l’applicazione e la cercano.

L’utilizzo dell’app è utile come primo ma non unico approccio. Dall’appiattimento psicologico dei profili scaturisce spesso un analfabetismo emotivo che limita la possibilità di conoscersi tramite la chat, rendendo ancora più difficile un successivo incontro. Il problema non deriva dal mezzo in sé, ma dal modo di servirsene: non può diventare la sola modalità di contatto, perché invece di facilitare l’avvicinamento provoca l’inaridirsi dei legami.

pubblicato sul numero 31 de La Falla – gennaio 2018