In occasione della 19esima edizione del festival Gender Bender è stata presentata una delle tappe di Swans never die – progetto che coinvolge 10 coreografi e coreografe nel tentativo di riproporre il celebre assolo coreografico della Morte del cigno, ideato da Michel Fokine appositamente per la ballerina Anna Pavlova e messo in scena per la prima volta nel 1907.  

Uno degli obiettivi del progetto è quello di inaugurare un viaggio di idee fatto di workshop, residenze artistiche e incontri in cui recuperare la dimensione memoriale insita nella danza e nel movimento del corpo

Anna Pavlova

Swans never die – fin dal nome, i cigni non muoiono mai – è un invito al ripensamento dell’immaginario del cigno come quintessenza della danza classica, senza che ci sia però nessun tentativo di riscrittura forzata. Si tratta di ricreare un nuovo approccio emotivo al classico dalla prospettiva di chi ne raccoglie l’eredità, pur mantenendone le distanze. Anche per questo, sul piano stilistico, tecnico e identitario si è deciso di valorizzare la dimensione unica e personale di performers e coreografə nell’atto di reinterpretare il passato. Le tre performance sono riuscite a restituire questa fluidità poliprospettica nella cornice dello spettacolo.

Il primo sipario è Open Drift – ideato dal coreografo tedesco Philippe Kratz. Dall’esibizione di Antonio Tafuni e Nagga Baldini riusciamo a cogliere l’apertura della Morte del cigno al movimento fluido in una libera interpretazione di Kratz. 

Open Drift

Pur nella postura slanciata e dritta dei corpi sulla scena, i movimenti scattanti dei piedi che solleticano il palco sono il perno di un attraversamento nomade dello spazio. L’idea di transito, e il concetto di transizione, insite nella poetica di Kratz, sono impersonate dallo scivolare di Tafuni e Baldini non soltanto da un capo all’altro del palco, ma in tutte le direzioni. Giocando con la profondità e con la presenza-assenza della carne (attraverso la proiezione delle ombre dei corpi sul fondale) il transito non trova arresto se non nell’incontro con l’altro, ignoto ma vicino nello stesso movimento.

Quello che segue è lo spettacolo diretto e interpretato da Chiara Bersani, artista e autrice piacentina attiva nell’ambito delle performing arts e della ricerca sul valore politico del corpo. L’animale vede Bersani come unica artista sul palco, distesa su un piedistallo circolare rialzato, immerso nel buio della scena. Al movimento quasi meccanico delle braccia si accompagna la voce spezzata del canto. Non è un lamento stereotipato quello del cigno, ma un affanno che smaschera il fiato e libera le possibilità di riconoscimento nello spazio non-verbale del suono. 

Più che una riscrittura, nel proprio corpo, dell’assolo di Pavlova, assistiamo a una rilettura emotiva e culturale attraverso la voce, che passa quindi anche proprio per il corpo. L’approccio con la tradizione classica, infatti, si deve confrontare con una tradizione di cui la performance moderna è debitrice, ma anche critica nei suoi aspetti problematici. Chi può dirsi ballerina? Il palco della danza classica non è uno spazio abitabile da tutte le fisicità, ma risulta escludente verso corpi non-conformi ai rigidi standard richiesti. La sensibilità di Bersani sta nell’avvicinarsi al classico passando per il movimento pure nella sua dimensione impercettibile – quello delle particelle d’aria sollevate dal canto – e recuperando nella notte del cigno un linguaggio del corpo più universale che ne comprende anche la voce.

Silvia Gribaudi

Chiude lo spettacolo Silvia Gribaudi, artista unica e nota nelle arti performative per il suo «umorismo aspro» (Roger Salas); in Peso Piuma con il recupero della pragmatica della scena interroga il pubblico a viva voce. Gribaudi ha una formazione classica da cui si discosta per elaborare una poetica del feìsmo che valorizzi e rivendichi il brutto nello spazio teatrale così come il movimento libero di ogni fisicità. Lo spiazzamento è il biglietto da visita con cui irrompe al di là del sipario, irridendo i parametri di perfezione e leggerezza che si richiedono al corpo canonico della ballerina classica. Gribaudi si presenta sul palco quasi spettinata, senza tutù e interagendo con il personale tecnico per avviare la musica. Getta a terra le scarpette da ballo, indossa sul palco i salvapunte, mostrando la goffaggine, la schiena curva, il corpo rilassato nascosto dal dietro le quinte. Mima «quelle braccia e quel collo spezzato della Pavlova» (Gribaudi), invitando il pubblico a seguirla nei movimenti. La platea partecipa così alla costruzione della performance nella dimensione dell’agio – «take your time» ripete Gribaudi sul palco – restituendo al cigno di Pavlova il calore dell’abbandono fisico e dell’intimità emotiva. Se la ballerina classica è incastonata in un ideale di bellezza femminile che rifiuta la pesantezza e la gravità dei corpi, il peso piuma di Gribaudi libera la scena dall’artificio della grazia femminile obbligata

Sul palco di Swans never die la morte del cigno sembra riposizionarsi come ultimo stadio di una metamorfosi, resa possibile nella rivendicazione politica dello spazio teatrale come spazio di convivenza. 

Immagine in evidenza da fabbricaeuropa.net

Immagine 1 da wikipedia.org

Immagine 2 e 3 da abcdance.eu