Nel luglio del 1981 la GRID (Gay-Related immune deficiency) viene ufficialmente battezzata come «rare Cancer» dal New York Times, che riporta i casi in 41 omosessuali. Nonostante la ricerca sulla nuova sindrome avesse riportato tra i casi anche soggetti eterosessuali, persone che facevano uso di droghe per via endovenosa o soggette a trasfusioni, nasceva ufficialmente la «peste gay». L’attenzione mediatica, sulla scia di quella economica, rivolta alla riduzione della spesa pubblica a favore di quella bellica, delinea quindi come nuovo soggetto a rischio la pericolosità della popolazione omosessuale.
L’eterosessualità monogamica e l’astinenza diventano quindi i due nuovi modelli da seguire, alimentati dall’assenza di educazione sessuale e dalla colpevolizzazione cristiana e morale dell’omosessualità, vista come smodata e promiscua.
«L’Aids non ha solo l’infausto effetto di rafforzare il moralismo sessuale americano; consolida ulteriormente la cultura dell’interesse personale, il sostrato di ciò che si suole magnificare come “individualismo”»[1]
Se l’interesse personale era un’illusione praticabile per l’occidentale borghese bianco eterocisgnere, la comunità gay veniva polverizzata dalla chiusura dei luoghi di socializzazione, dai lutti giornalieri e dall’omofobia e sierofobia della società che li spingevano spesso all’isolamento o alla rivendicazione della propria (in)visibilità, come nel caso di Bobby Krammer, con il primo pamphlet sul «sesso sicuro», o di Larry Kramer con la nascita di Act Up. Ai margini di questi due poli c’erano poi le donne (e le lesbiche), soprattutto se razzializzate, se povere, se costrette a una dimensione di marginalità (come sex worker o tossicodipendenti) o se riassumevano in sé tutte queste caratteristiche.
«Le donne non si ammalano di AIDS, ne muoiono soltanto»[2]
Non solo l’attenzione mediatica ma anche quella medica si concentrava prevalentemente sui corpi di uomini cis gay bianchi (talvolta anche su corpi di donne trans, ma tralasciandone le possibili interazioni con modifiche ormonali) e sul sesso anale penetrativo, lasciando un vuoto informativo attorno a ciò che non rientrava e nel paradigma dei soggetti presi in esame e nelle pratiche sessuali non ritenute a rischio (come scritto qui, questa mancanza è ancora costante). Eccezion fatta per le gestanti, che venivano convinte ad abortire per timore di una progenie infetta o sulle quali venivano praticate vere e proprie violenze ginecologiche, come l’asportazione non volontaria dell’utero. Le conseguenze inevitabili erano la mancanza di diagnosi e una difficoltà maggiore di accesso ai sussidi. Mediaticamente invisibili come un uomo eterosessuale, difficilmente le donne potevano però coltivare il proprio «interesse personale», essendo socialmente preposte, per via del genere, alla cura dell’altro e della comunità ancor prima che alla propria.
«[…] si tratta di anticipare i bisogni specifici della comunità (sia questa il nucleo ristretto della coppia, della famiglia, o via così allargandosi) impiegando una precisa forma di memoria emotiva. Questa memoria, e il lavoro che ne deriva, sono forme di esistenza faticosa, praticata sul fondamento generale che le donne debbano, di fatto, occuparsene e preoccuparsene, così da ammortizzare qualsiasi frattura o inceppo in questo meccanismo di responsabilità»[3]
All’attivismo gay, che fece da apripista nel fronteggiare l’impatto dell’epidemia, si unirono le lesbiche e le persone trans, contribuendo alla costruzione di una comunità intersezionale. Chi ha già visto Pose e Paris is burning conosce l’importanza delle drag queen e delle donne trans nella costruzione di vere e proprie famiglie queer slegate dai legami di sangue, dove la vita e la morte venivano gestite collettivamente. Parallelamente, le donne sieropositive si riorganizzavano in associazioni per l’assistenza sanitaria alle detenute (come Katrina Aslip), in corsi di educazione sessuale per ragazz* e di aiuto per senzatetto e prevenzione contro l’Hiv o semplicemente cercando di eliminare lo stigma da quei luoghi domestici che abitavano, come le comunità religiose e i centri estetici.
Invisibili tra gli invisibili, le donne e le persone queer seminarono degli spazi di cura nelle crepe dello stato. Il nostro compito è coltivarne la memoria.
[1] Malattia come metafora e L’Aids e le sue metafore, Susan Sontag, p. 208, Nottetempo
[2] Nothing without us, Harriet Hirshorn, USA, 2017 <https://www.youtube.com/watch?v=_UAU8Xk_YoA>
[3] Speciale Ghinea #6: Emotional Labour, <https://ghinea.substack.com/p/speciale-ghinea-6-emotional-labour?utm_campaign=post&utm_medium=email&utm_source=facebook&fbclid=IwAR2rO79KDkguMzmrr_nlSqjVP-u8m6RaqG7b6ExRB-HArV30qKpoQ18tV8M>
Immagine in evidenza da: The Guardian
Immagine 1 da: The Globe and Mail
Immagine 3 da: Tv Insider
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