«Se una pallottola dovesse entrarmi nel cervello, possa questa infrangere le porte di repressione dietro le quali si nascondono i gay nel Paese».

Harvey Milk è una delle personalità più rappresentative del movimento di liberazione omosessuale: considerato un suo martire, ha segnato indelebilmente la stagione di lotta politica e di rivendicazione dei diritti civili che coinvolse i giovani europei e americani tra gli anni ’60 e gli anni ’70, e di cui il movimento LGBT+ è un prodotto. Fu il primo gay dichiarato a ricoprire una carica politica negli Stati Uniti. Eletto come supervisor (consigliere comunale) di San Francisco nel 1977 a fianco del sindaco democratico George Moscone, il 27 Novembre 1978 fu assassinato, insieme a quest’ultimo, dall’ex consigliere comunale Dan White. Nel 2009 Barack Obama gli ha conferito, postuma, la Presidential Medal of Freedom, massima onorificenza degli Stati Uniti al valor civile, per il suo impegno ed attivismo nel movimento per i diritti della comunità LGBT+.

Harvey negli ultimi mesi della sua vita era consapevole della possibilità di una tragica conclusione, motivo per cui registrò delle audiocassette in cui raccontava ciò che era accaduto a partire da otto anni prima. Questo è lo spunto dal quale prende le mosse il film del regista Gus Van Sant che nel 2008 rende nota la biografia e la vicenda di Harvey Milk, misconosciuta al grande pubblico sebbene d’importanza capitale per il movimento LGBT+ e per la storia americana e occidentale. Ciò denota la diffusa indifferenza e incapacità che regna all’interno dei mezzi di comunicazione, quando non una volontaria politica e strategia di oscuramento e discriminazione nei confronti delle tematiche LGBT+, non volta di certo a dare visibilità alla comunità nella sua interezza e complessità o a favorire un’inclusione, che spesso riempe solo le bocche per discorsi politici commoventi e dovute circostanze istituzionali. 

Il viaggio che portò Harvey da New York a San Francisco – in compagnia del suo amante Scott Smith (James Franco) – è quello della sua emancipazione. Infatti da quell’omosessualità non accettata che lo aveva reso una delle numerose vittime silenziose della marina america (da cui era stato formalmente congedato con onore) è diventato il primo gay dichiarato all’interno delle istituzioni americane. 

La città californiana, negli anni di Kennedy, degli hippies e della beat generation, fu la destinazione prescelta da i giovani in cerca di libertà in tutte le sue forme: artistica, politica e sessuale. Ancora oggi San Francisco è considerata una delle capitali culturali degli USA: da sempre stata città di musei e teatri, era divenuta in quel periodo vero e proprio centro della cultura alternativa e underground. Mossi da analogo slancio, Harvey e Scott si trasferirono a Castro, quartiere da sempre cuore della cultura LGBT+, dove aprirono un negozio di fotografia, trasformatosi presto in via di fuga e luogo di confronto per molt*. Le persone che transitarono da lì intrapresero un percorso  comune, individuale e collettivo, diventando individu* e cittadin* attiv* e consapevol*. La lotta contro i pregiudizi esterni cominciava da quelli interni provenienti dalla famiglia, che è figura e ruolo fantasma in tutta l’opera del regista americano.

In questo ambiente nasce per la prima volta l’idea della candidatura di Harvey a supervisor, per promuovere e pretendere il vero cambiamento di San Francisco. È il 1977 e l’intero quartiere lo ha soprannominato il ≪Sindaco di Castro Street≫. Quasi tutta Frisco è con lui, tranne il suo amato Scott. Una coppia poetica e eterna, al di là della separazione e del tempo. 

≪Io sono Harvey Milk e voglio reclutarvi tutti≫, continuava a gridare a una folla che s’ingrandiva sempre più. Lo faceva col vestito buono. Harvey, infatti, comprese che per battere gli avversari si doveva mostrare uguale a loro – secondo i canoni di una società occidentale – ma rivendicando con orgoglio la sua diversità. Era così che li spiazzava: allora non poteva più essere etichettato e perciò marginalizzato, come succedeva e succede ancora con la rivendicazione dell’eccentricità al Pride, percepita come estranea e minacciosa. Harvey Milk non incarnerà mai lo stereotipo queer, e al contempo non rinnegherà mai gli eccessi e l’ostentazione quali valori politici. Non sarà mai inquadrabile, incasellabile e marginalizzabile. I suoi gesti testimoniano una maturità e una personalità comprensibili solo alla luce di questa complessità.

Il regista Gus Van Sant ha adottato lo stesso stile comunicativo: come Harvey mutò la sua strategia politica, così Van Sant cambia il suo registro abituale, classicizzandolo. Allontanandosi dallo sguardo strettamente individuale di cui vive il suo cinema, usa le retoriche e gli stilemi del film biografico, arricchendosi di riprese di massa in campo lungo, immagini di repertorio e sequenze para-documentaristiche, volutamente sporche e coloratissime.

Entrambe le strategie si sono dimostrate vincenti. Van Sant ha vinto due Oscar per questo film, e Harvey ottenne la prima storica vittoria con la mancata approvazione della Proposition 6, che intendeva discriminare attraverso il mezzo del licenziamento qualsiasi insegnante che si dichiarasse o appoggiasse in qualsiasi misura l’omosessualità. Negli Stati Uniti da allora (almeno fino a oggi), grazie a Harvey Milk, si sono fatti passi da gigante, ma ancora in molti Paesi, tra cui l’Italia, il riconoscimento, se è avvenuto, è stato solo a livello formale: scarsa la rappresentanza politica, aspri dibattiti sul piano dei diritti civili e una diffusa ostilità, indizi di più pericolosi e inaccettabili sentimenti di odio e intolleranza. Infatti sono ancora molte le persone costrette a nascondersi dietro quelle porte di cui Milk auspicava l’abbattimento. La paura è ancora oggi quella di non essere accettat*, tutelat* e di risultare eccessivamente espost*. 

Harvey Milk aveva compreso e realizzato che bisognava però sempre cercare un dialogo. Ciò voleva dire fare coming out, ribadendo senza paura e con orgoglio il proprio essere. Il film sottolinea l’importanza di questo gesto e della sua carica etica e politica, ricollegandoci alle origini storiche di un termine che veniva coniato proprio durante i moti di Stonewall. La fine tragica di Milk e l’assurdità della sentenza a carico di Dan White, giudicato parzialmente incapace d’intendere e di volere per un eccessivo consumo di junk food (causa della sua presunta depressione) non hanno infatti intaccato, anzi hanno enfatizzato, il valore delle sue idee di libertà, diritti, uguaglianza, che grazie a lui una volta di più abbiamo potuto rivendicare, urlare e pretendere con orgoglio.

Immagine in evidenza realizzata da  Ren Cerantonio