La decisione della giunta comunale di ritirare il patrocinio al Bergamo Pride del 15 giugno purtroppo non sconvolge. Non lo fa perché è dai giorni immediatamente successivi al 7 ottobre 2023 che la narrazione dominante tra i colletti bianchi del cosiddetto Occidente è più o meno la seguente: Se anche solo nomini Israele in senso critico sei un antisemita amico dei terroristi. D’altronde, ormai, questa impostazione argomentativa è il marchio dialettico della nostra contemporaneità e si replica senza sosta impoverendo ogni tipo di dibattito (si veda la stessa tendenza sulla guerra in Ucraina). Per nostra fortuna, come movimento, alle volte riusciamo a stare di più nella complessità e va da sé che chi un minimo di consapevolezza sull’intersezionalità delle lotte la ha, non si fa problemi a dire che quanto sta accadendo in Palestina è l’ennesimo massacro sistematico ai danni di una popolazione inerme e da decenni soggetta a soprusi di ogni sorta. Se a produrre quel massacro è uno Stato, non è assurdo affermare, come ha fatto Bergamo Pride, che sarebbe meglio non esporre a un corteo che di questa lotta si fa carico simboli inneggianti proprio allo Stato il cui governo sta producendo tutto questo. Sull’equiparazione tra questo e antisemitismo meglio non soffermarsi troppo, basti ricordare quanto la sovrapposizione tra Stato/Paese e popolazione/etnia sia di fatto una delle narrazioni fondanti della destra più conservatrice. 

Alla luce di tutto questo, come si diceva, non sorprende che la giunta di Giorgio Gori abbia deciso di ritirare il patrocinio: scelta comunque interessante se considerato che viene operata a un passo dalle elezioni europee che hanno visto candidarsi proprio Gori per il PD (candidatura per altro riuscita considerate le oltre 210000 preferenze incassate), rendendo urgente il chiedersi che tipo di posizioni certi partiti vogliono portare in Europa. La riflessione necessaria che come movimento dobbiamo fare è però la seguente: cosa ce ne facciamo di un patrocinio se sembra diventare lo strumento attraverso il quale le istituzioni cercano di dettare l’agenda delle nostre istanze? Abbiamo lottato per anni affinché ci fosse un riconoscimento pubblico dell’urgenza delle nostre lotte, ma non possiamo certo lasciare che questo produca un’inversione di tendenza sulla misura della nostra elaborazione politica. Se riteniamo che la lotta a favore della Palestina è per noi un’urgenza (e per fortuna in larga parte lo stiamo riconoscendo) allora ben venga che una classe dirigente che si rifiuta di riconoscere quanto sta accadendo ci tolga il proprio assenso. Tanto più che le motivazioni elaborate dalla giunta bergamasca grondano paternalismo: «perché l’associazione ha trasformato l’iniziativa da evento a favore dei diritti civili in manifestazione a favore del popolo palestinese, con tratti di intolleranza». 

In questo senso rattrista che anche dalle aree più istituzionalizzate del movimento arrivino dichiarazioni che invece di supportare il Bergamo Pride sembrano condannarlo. È ad esempio il caso di Marco Arlati (ex Presidente di Arcigay Bergamo e attualmente membro della segreteria nazionale di Arcigay con delega allo sport) che ha deciso di fare propria una narrazione squisitamente di destra: «Ecco la deriva del Bergamo Pride quando si lascia in mano a soggetti dei centri sociali che utilizzano questa manifestazione per le loro azioni di intolleranza e divisione». Rattristano certe uscite, come si diceva, ma fa anche sorridere che uno dei traguardi raggiunti degli ultimi anni dai movimenti, e cioè una contaminazione tra le istanze cosiddette antagoniste e le forze più riformiste, venga ridotto a un qualcosa da “centri sociali”. Che poi la destra attiri sguardi insospettabili per quanto riguarda Arlati non è certo una novità considerato il suo endorsement di questo aprile nei confronti di Andrea Pezzotta, candidato alle Comunali di Bergamo in una lista civica sostenuta da Fdi, Fi e Lega.

In fin dei conti tenetevi pure i vostri patrocini, preferiamo la complessità della nostra elaborazione politica e delle nostre lotte alla semplificazioni istituzionalizzata che sembra vogliate imporci. Preferiamo, come sempre, l’autodeterminazione.