PERCHÉ MIKE PENCE POTREBBE PORRE FINE A UNO DEI MOMENTI PIÙ IMBARAZZANTI DELLA STORIA USA

Lo aveva proposto Nancy Pelosi, la speaker dem della Camera, già l’8 novembre scorso; oggi sembra una ipotesi sempre più concreta, soprattutto dopo gli avvenimenti di ieri sera che hanno tenute incollate agli schermi persone da tutto il mondo, non senza apprensione: è il 25esimo emendamento della Costituzione. Adottato nel 1967, nella storia statunitense è stato applicato solo in forma volontaria per brevi assenze legate a motivi di salute dei presidenti (Reagan e Bush Jr.), ma mai nella sua quarta sezione, che sembra essere stata scritta proprio immaginando uno scenario come quello surreale che stiamo vivendo da circa due mesi.

Prevede infatti che, se il vicepresidente e la maggioranza del gabinetto dell’esecutivo ritenessero il presidente non più in grado di espletare i poteri e doveri del suo ufficio, questi possano comunicarlo, in forma scritta e formale, ai vertici del Senato, affidando così d’ufficio il potere al vicepresidente.

Una esautorazione totale del presidente? Non proprio, perché a quest’ultimo non verrà negata tout court la possibilità di reclamare i poteri, ma a quel punto i firmatari della lettera potranno opporsi, portando lo scontro al Congresso che potrebbe di fatto cacciare il presidente votando con una maggioranza di due terzi in entrambe le camere.

La strada del 25esimo emendamento sembra molto più percorribile di quella dell’impeachment, grazie all’ambiguità propria della quarta sezione: quali sono le circostanze – oltre a quelle ovvie di una morta improvvisa – che rendono un presidente incapace di espletare poteri e doveri? La quarta sezione non lo esplica e, al contrario dell’impeachment che richiede la formulazione di accuse precise, apre la strada a molteplici, se non infinite, interpretazioni. Così tante che, dal 1967, non si è mai ritenuto opportuno utilizzare la quarta sezione del 25esimo emendamento. Ma oggi molto è cambiato e quello che è successo ieri è stato solo il culmine di quanto iniziato già prima delle elezioni. Trump ha iniziato a instillare il dubbio di brogli elettorali in un terreno fertile, quello di un certo conservatorismo americano – ormai lontanissimo da quel Grand Old Party che è stato e che dovrà continuare a essere il partito Repubblicano – che trova la sua espressione nel movimento Qanon, nei no-mask, no-vax e in tutti quei movimenti di cui Jack Angeli – l’uomo vestito «come in un video di Jamiroquai» – è diventato simbolo occupando il podio del Congresso ieri sera. 

Donald Trump si è comportato come un piromane navigato. Ha seminato via social esche nel sottobosco dei teorici del complotto, dei rednecks, di quelli convinti che lui fosse l’unico baluardo contro una élite mondiale giudoplutomassonica (inserire-cose-a-caso). E ieri, dopo che l’incendio ormai era divampato nella sua forza devastante, dopo che le foto e i video degli agenti con le pistole spianate a difesa della porta dell’aula avevano fatto il giro del mondo, dopo le immagini dell’ufficio di Nancy Pelosi violato, dopo quattro morti e dopo le foto di Angeli che reclama il podio, dopo l’appello di Biden che è apparso in televisione per invitarlo a fare qualcosa, Trump è apparso dicendo «We love you. Go home. Vi voglio bene, ma anche se ci hanno rubato le elezioni andate a casa». Un piromane esperto, dunque, che a incendio divampato ha continuato a gettare benzina sul fuoco senza neanche fingere di nasconderne la tanica.

Ora i social lo hanno silenziato, prima volta nella storia per un capo di Stato: inizialmente 12 ore su Twitter e 24 su Facebook. Nel pomeriggio di oggi però, il colpo di scena e il fondatore e ceo di Facebook prende la parola annunciando la sua intenzione di bloccare a Donald Trump gli account – anche Instagram di cui Zuckerberg è proprietario – a tempo indeterminato: «Riteniamo che i rischi di permettere al Presidente di continuare a utilizzare il nostro servizio durante questo periodo siano troppo grandi. Pertanto, stiamo estendendo il blocco che abbiamo messo sul suo account Facebook e Instagram a tempo indeterminato e per almeno le prossime due settimane fino al completamento della transizione pacifica del potere», ha scritto Zuckerberg nel post.  E ancora: «Gli eventi scioccanti delle ultime 24 ore dimostrano chiaramente che il presidente Donald Trump intende utilizzare il tempo che gli rimane in carica per minare la transizione pacifica e legittima del potere al suo successore eletto, Joe Biden. Ieri abbiamo rimosso quelle dichiarazioni perché ritenevamo che il loro effetto – e probabilmente il loro intento – sarebbe stato quello di provocare ulteriori violenze. Dopo la certificazione dei risultati elettorali da parte del Congresso, la priorità per l’intero Paese deve ora essere quella di assicurare che i restanti 13 giorni e i giorni successivi all’inaugurazione passino pacificamente e secondo le norme democratiche stabilite».

La parabola di Donald Trump potrebbe essere destinata a finire così ed è quello che auspicano in molte oltreoceano: lo aveva chiesto Nancy Pelosi, come già detto, ora lo chiedono a gran voce tutti i democratici. «Il modo più immediato per garantire che il presidente non possa causare ulteriori danni nei prossimi giorni è quello di invocare il 25esimo emendamento e rimuoverlo dall’incarico», ha scritto la senatrice dem Patty Murray su Twitter, ma è una voce di un coro che rimbomba la sua eco dalla costa est a quella ovest. La lista di chi chiede l’applicazione della quarta sezione del 25esimo emendamento, infatti, si allunga ora dopo ora. 

Mancano 13 giorni alla cerimonia di insediamento di Joe Biden la cui elezione è stata certificata dal Congresso oggi. Mike Pence, il vicepresidente uscente, ha condannato le violenze e si è congratulato con Biden, ma sul futuro, al momento, tace. A Washington sembra essere tornata almeno apparentemente la calma. Fino al prossimo tweet di Trump.

Articolo aggiornato il 7 gennaio 2021 alle 18.44

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