Nato nell’estrema provincia mantovana nell’89, graphic designer, atleta e attivista disabile e queer, Simone Riflesso parla della sua vita da quando ha incontrato una disabilità. Il suo nome viene dalla ricerca identitaria negli specchi e nei riflessi fugaci sui vetri, in un’immagine sempre mutevole. Ha cominciato a collaborare con La Falla nel gennaio ‘22 per parlare di corpi e vite non conformi, ma – come lui stesso afferma – la redazione tira fuori tutte le nostre capacità.
Quando abbiamo pensato a un poster che rappresentasse il rapporto tra corpi grassi ed estate, ti sei proposto di realizzarlo con entusiasmo. Come mai?
Sento in maniera molto istintiva la relazione tra corpi grassi e corpi disabili, dunque avverto l’esigenza di metterli al centro della rappresentazione per dare voce alle loro marginalità, siccome vengono raramente raffigurati – e ancora più raramente in chiave positiva. Nei mesi estivi l’ansia di mettere in mostra corpi definiti non conformi si accentua – penso alla grassofobia dilagante della prova costume -, dunque ho voluto raffigurare una donna che semplicemente se ne frega. In generale, amo disegnare donne grasse o considerate brutte e inaccettabili dal punto di vista patriarcale, ci vedo una vena rock, una potenza insita che voglio far emergere. Lo sguardo verso i corpi grassi è sempre giudicante e allora il mio personaggio lo intercetta con il suo e dà una risposta molto chiara: un’occhiata corrucciata e il dito medio.
A cosa ti sei ispirato per la realizzazione dell’illustrazione?
Nonostante parta molto dal fotografico per i corpi in generale, i volti che ritraggo di solito non hanno modelli reali. Disegno spesso però sguardi simili, con sopracciglia torve, occhi a mezz’asta e angoli della bocca verso il basso. L’ispirazione più diretta è la Nascita di Venere, ma invece dell’embellishment di capelli fluttuanti, conchiglie e altre cose graziose, ho voluto un “imbruttishment”, con alghe e capelli bagnati attaccati addosso. Disporre questo corpo così in primo piano è come mettere un oggetto, dal punto di vista semiotico, in mezzo a una stanza e chi guarda è obbligatə a entrarci in relazione, magari sperimentando fastidio perché non è abituatə a farlo. Il soggetto vuole dire: «Adesso mi guardi, hai a che fare solo con me, sono io la protagonista».
Ammettendo che ricordo soprattutto quelli omoerotici, come realizzi i tuoi lavori?
Effettivamente disegno spesso scene di sesso tra uomini. È un modo per sublimare un bisogno, per sperimentare in una forma che sento sicura la mia sessualità, che al momento tendo a non esprimere altrimenti. Lavoro in digitale, con dei pennelli che ho creato da solo per richiamare il tratto a matita. In questo modo voglio rendere la matericità del tratto classico, come fosse uno schizzo: essendo disabile, mi piace vedere l’imperfezione del tratto. Apprezzo il contrasto tra il dettagliato e l’abbozzato: l’uno per i dettagli sui quali voglio concentrare l’attenzione, le porzioni centrali come i tratti del viso, l’altro per le parti più esterne, dove magari può lavorare di più la fantasia. Generalmente poi ragiono molto sul bianco e nero, mentre il colore resta sullo sfondo.
Cosa ci puoi rivelare in più di questo personaggio?
Quando disegno do sempre un nome ai miei soggetti: lei potrebbe essere una perfetta Ursula. È un nome altisonante, per una donna che si porta dietro un bagaglio di vita dal passato, magari una pirata. Ma ce la vedo anche molto bene come una bidella che ha solo voglia di sfogarsi.
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