COSA PUÒ RISPONDERE BOLOGNA A UN PRIMO MAGGIO PIENO DI INTERROGATIVI?

Il primo maggio di quest’anno mostra almeno due anomalie. La prima, condivisa con il resto del mondo, risiede nella circostanza d’esser collocato nel mezzo – auspicabilmente, sul finire – della grave crisi pandemica che attanaglia il pianeta a ogni latitudine, la quale ha notoriamente drammatizzato la questione sociale, allargando la forbice delle diseguaglianze di genere e di classe e notevolmente allungato la già vasta ombra d’incertezza sul futuro del lavoro, specie – ma non solo – per le giovani generazioni. 

La seconda anomalia, che Bologna condivide con altre grandi città italiane quali Roma, Milano, Napoli e Torino, risiede nel fatto che questo primo maggio apre, nei fatti, la campagna elettorale per le amministrative dell’autunno, che saranno indubbiamente condizionate, innanzitutto, dalle risposte alle preoccupazioni di cittadini e cittadine riguardanti la situazione sanitaria e i suoi dirompenti effetti economici e occupazionali. Come possono dire le città in generale, e Bologna in particolare, di un primo maggio come questo? 

Qualche scrupolosa giurista e qualche esperto dirigente pubblico starà già pensando che siamo fuori fuoco, giacché la regolazione del lavoro, nelle sue diverse sfaccettature, è una materia affidata alla competenza esclusiva dello Stato e a quella concorrente delle Regioni (art. 117 Cost.), essendo, al più, permessa la consueta querelle sul riparto di competenze tra i due enti, destinata ad accentuarsi dopo la pandemia. Ciò, tuttavia, rappresenta solo una mezza verità, che colpevolmente trascura il ruolo che un Comune può svolgere in qualità di partner negoziale o facilitatore di negoziazione sociali; in qualità di “datore di lavoro indiretto”, specie se inteso come stazione appaltante; in qualità di concessionario di licenze, spazi e suolo pubblico in virtù delle prerogative di carattere amministrativo di cui gode ogni attore pubblico territoriale. 

La città, insomma, a condizione di combinare determinazione e fantasia, può mettere in campo una serie infinita di strumenti, di tecniche e di pratiche, finalizzati a innalzare gli standard di tutela del lavoro (e quindi delle condizioni di vita) e dell’occupazione nei territori.

In che contesto evochiamo questo protagonismo delle città? Ebbene, il mercato del lavoro dell’area bolognese è molto cambiato nel corso degli ultimi anni, con un significativo incremento del tasso d’impiego nel settore dei servizi, cui si è accompagnato un decremento occupazionale nel settore industriale. Lo sviluppo dell’industria turistica e culturale, l’espansione del settore della ristorazione e più in generale la crescente attrattività della città, favorita dalla sua collocazione territoriale e da una rete di infrastrutture e trasporti (idonee a renderla strategica per il turismo estero nel centro-nord Italia) hanno favorito, fino alla pandemia, una significativa crescita dell’economia urbana. 

I settori coinvolti sono, però, caratterizzati da forme d’impiego intermittenti, saltuarie o discontinue, da part-time involontario e, in generale, da condizioni retributive modeste. Per non parlare del food-delivery, ove si aggiungono – come noto – ulteriori criticità legate alla salute e alla sicurezza di lavoratori e lavoratrici.

Come permettere, dunque, all’attore pubblico locale d’interferire in maniera positiva con la disciplina dei rapporti di lavoro, con la regolarità contrattuale, retributiva e contributiva, con la stabilità dei vincoli negoziali nonché, più in generale, con le condizioni e la qualità dei rapporti di lavoro che hanno luogo nel contesto urbano?

Innanzitutto, se si ha riguardo ai servizi di pubblico interesse e alle società partecipate, il Comune di Bologna può essere tranquillamente definito come il principale datore di lavoro indiretto della città: prestano un’attività lavorativa di cui beneficia, a vario titolo, il Comune di Bologna, molte migliaia di lavoratori e lavoratrici, in parte occupatə in società partecipate quali, per citare solo le più rilevanti, la multiservizi Hera S.p.a. (la cui compagine azionaria è pubblica per il 46,4%, in virtù di un patto di sindacato che coinvolge il Comune di Bologna, azionista per l’8,4%), BolognaFiere S.p.a. (il cui pacchetto azionario è detenuto per la metà da soci pubblici: il Comune di Bologna per il 14,7%; la Camera di commercio per il 14,6%; la Regione Emilia-Romagna e la Città metropolitana per oltre l’11% ciascuna) e Tper (la società di Trasporto Passeggeri Emilia Romagna è tutta in mano a soci pubblici, tra i quali spiccano la Regione Emilia-Romagna che detiene il 46,13% delle quote, il Comune di Bologna per il 30,11% e la Città Metropolitana di Bologna per 18,79%); in parte dipendenti di società che svolgono, in virtù di un contratto di appalto, servizi affidati dal Comune con bando di gara, che spaziano dai servizi educativi alla gestione del verde, dalle mense scolastiche alle attività culturali.

In questo contesto, i protocolli tripartiti volti a disciplinare i bandi di gara relativi alle attività da affidare in appalto possono fare moltissimo in tema di continuità occupazionale delle maestranze, supporto ai segmenti più deboli del mercato del lavoro e sostegno alla contrattazione collettiva di secondo livello, a condizione di combinare efficaci clausole di riassorbimento della manodopera impiegata nei servizi affidati in appalto, con le clausole di inserimento dei lavoratori e delle lavoratrici svantaggiatə e con quelle orientate a premiare più elevati standard di tutela garantiti da contratti territoriali o aziendali

In secondo luogo, con riguardo al settore cultura, turismo e servizi, è bene rammentare che vi operano soggetti e partner rispetto ai quali l’attore pubblico detiene molte leve indirette di regolazione: basti pensare alla facoltà di condizionare la concessione, il mantenimento e/o la defiscalizzazione degli spazi esterni ai pubblici esercizi (c.d. dehor) alla garanzia del rispetto di ogni norma e procedura in materia di sicurezza e regolarità del lavoro (anche in partnership con altri attori pubblici quali i servizi ispettivi, l’Inps e l’Inail) o, più ancora, all’innalzamento degli standard di tutela e qualità dell’occupazione. Per questa via, insomma, si potrebbero premiare i soli esercenti disposti a privilegiare forme contrattuali di medio lunga durata, penalizzando, per converso, il ricorso al lavoro intermittente, occasionale o di breve durata. 

Il contesto urbano della city of food si è peraltro arricchito, da alcuni anni a questa parte, della presenza di attori economici che operano nel settore della consegna di beni e, soprattutto, cibo a domicilio. Il food-delivery è molto cresciuto sia prima sia durante la pandemia, vedendo impegnata una flotta che conta, a Bologna, oltre seicento unità. In questo campo di lavoro assai poco tutelato, si è sviluppata una vertenzialità molto accesa che ha assunto connotati peculiari: le esperienze di sindacalismo informale, come l’oramai nota Riders Union Bologna, hanno, da un lato, investito direttamente l’ente pubblico delle responsabilità derivanti dal fatto che il luogo di lavoro è rappresentato dalla piattaforma materiale della città, con le sue strade e le sue piazze; dall’altro hanno stabilito buoni rapporti sia con le centrali sindacali storiche sia con gli utenti del servizio. È stato a seguito di uno sciopero andato in scena durante un’improvvisa nevicata del 17 novembre 2017 (c.d. sciopero della neve) che si è avviato un serrato confronto con le istituzioni locali che ha portato, nel 2018, dapprima alla costituzione di un tavolo sul lavoro digitale, poi alla stesura e alla sottoscrizione di una Carta dei diritti del lavoro digitale, largamente disattesa dalle piattaforme che non hanno – legittimamente – sottoscritto l’accordo. 

Sarebbe bello che questo primo maggio promettesse, per il futuro di Bologna, un marchio di qualità del lavoro nello spazio urbano, con cui certificare le condotte virtuose, rendendo riconoscibili coloro che le praticano. Così come sarebbe oltremodo opportuno che, ogni volta che si parla di lavoro, la politica opponesse alle consuete resistenza della macchina amministrative un nuovo adagio: a Bologna, si può fare.