in collaborazione con Lesbiche Bologna
«Voi due dovete andare via. Non potete abbracciarvi, ci sono anche bambini. Fate schifo!» Questo si sono sentite dire, nel giugno scorso, due ragazze lesbiche che passavano un pomeriggio al parco, a Pescara, dove, pochi giorni dopo, anche un ragazzo gay è stato pestato e mandato all’ospedale con la mascella fratturata, perché passeggiava con il fidanzato mano nella mano. Italia 2020: ecco il clima d’odio che imperversa e che gode di un +9% di episodi di aggressioni fisiche o verbali che toccano il +40% nella fascia dell’adolescenza (dati Gay Help Line).
Tra la scoperta di sé e la violenza conclamata esiste tuttavia uno spazio che non fa notizia, ma che erode dall’interno le persone appartenenti alla comunità LGBT+ e determina una cascata di conseguenze sul loro stato di salute. Stiamo parlando del Minority stress.
Qualsiasi evento di vita che ci richieda un’azione o reazione personale è potenzialmente stressante; d’altra parte, la nostra valutazione è molto diversa se la situazione di cui stiamo facendo esperienza è uscire con una nuova fiamma o se si tratta di affrontare un trasloco indesiderato in pieno agosto. Nel primo caso le tensioni e le modificazioni nel nostro corpo saranno utili a portare a casa una serata soddisfacente e troveranno presto ristoro, mentre nel secondo potremo provare sensazioni davvero sgradevoli. Parleremo, allora, di distress che, se protratto nel tempo, eserciterà delle sollecitazioni sul nostro sistema nervoso tali da alterare anche il funzionamento di altri sistemi, come quello immunitario.
In una società ciseterosessista come quella in cui viviamo, una persona appartenente alla comunità LGBT+ sperimenta un conflitto significativo tra i propri valori e quelli che governano la maggioranza, trovandosi sottoposta a stress psicosociale sistematico, frutto dell’omofobia interiorizzata (atteggiamenti anti-LGBT+ che affondano le radici in un tempo che anticipa di gran lunga la propria scoperta sugli assi dell’identità di genere e dell’orientamento sessuale), dello stigma (il subire l’apposizione di etichette che rendono insicur* e costantemente vigili nell’entrare in contatto con altre persone) e delle esperienze di discriminazione, rifiuto e violenza subite (I. Meyer 1995; 2003). Ognuna di queste categorie rappresenta una forma di stressor, cioè di minaccia all’integrità di salute, e ha una ricaduta significativa sul benessere individuale.
Venticinque anni di ricerche sul tema ci consegnano un corpus di consapevolezze da un lato profondamente amaro e dall’altro promettente per le possibilità di intervento che apre nel ridurre l’entità del problema. Sappiamo così che lo stress derivante dai processi di stigmatizzazione compromette l’efficacia della regolazione delle emozioni e della capacità di affrontare i problemi; fa aumentare pessimismo e perdita di speranza; determina un incremento nell’abuso di alcol, sigarette e marijuana (significativo nelle donne lesbiche e bisessuali confrontate con uomini etero e gay) e di altre sostanze e fa proliferare i sintomi ansiosi (crisi di panico, ansia generalizzata, fobia sociale) e depressivi, sino a idealizzazioni e comportamenti suicidari. Il Minority stress comporta inoltre una maggiore probabilità di avere più disturbi mentali in associazione, un minore supporto sociale, ridotti contatti con la propria famiglia di origine e minore soddisfazione nei rapporti con le proprie reti; promuove una visione negativa di se stessi, del mondo e del futuro e riduce i propri livelli di autostima (M. L. Hatzenbuehler, 2009). Può anche determinare modi di affrontare il conflitto tra valori sociali che producono a loro volta delle difficoltà, come accade a chi nasconde la propria appartenenza alla comunità LGBT+ nel tentativo di tutelarsi dalle minacce e si trova coinvolt* in un aumento dell’attenzione rispetto a come si parla, come ci si veste e come ci si comporta, fino all’emersione di sintomi d’ansia (J. M. Cohen et al., 2016); può predire una maggiore espressione di sintomi da Disturbo post-traumatico da stress in persone esposte a trauma (Cochran et al., 2013) e di disturbi del comportamento alimentare, specialmente nella popolazione maschile non eterosessuale (J. P. Calzo et al., 2017).
Tra le donne non eterosessuali è da notare come l’identificazione come bisessuale comporti maggiori sentimenti di insicurezza, minaccia percepita e violenza esperita (M. M. Johs et al., 2018), con minori livelli di salute, probabilmente da imputare alle maggiori ambiguità identitarie e alle minori opportunità di accesso a forme di supporto (C. la Roi et al., 2019). Ma non è tutto. Il Minority stress è stato messo in relazione anche alla risposta del sistema immunitario in uomini sieropositivi e in donne sottoposte a interventi chirurgici di asportazione di carcinoma, permettendo di constatare come anche in questi casi renda più difficoltosa la battaglia di salute ai/alle pazienti non eterosessuali (C. Kamen et al., 2018).
Tutto ciò non può prescindere dalla cornice teorica dell’intersezionalità. L’appartenenza etnica, per esempio, gioca un ruolo determinante nello squilibrare ancora di più la stigmatizzazione e quindi la tenuta della salute. Nel 2017, in America, il 79% dei crimini d’odio perpetrati ai danni della comunità LGBT+ si è consumato nei confronti di persone razzializzate (L. A. Parra, 2020).
Quali vie esistono, dunque, per contrastare un quadro così preoccupante? Anzitutto occorre dare risalto al fatto che laddove le relazioni con la propria famiglia e con i pari sono preservate, gli effetti deleteri del Minority stress si riducono sensibilmente; inoltre, esistono interventi strutturali (educativi, legislativi e di politiche sanitarie) – volti a ridurre gli stressor a monte, e interventi individuali (programmi per la comunità, per le coppie e per i singoli) – volti a sostenere le risorse delle persone che fanno parte dell mondo LGBT+.
Tutto questo può ancor più stimolarci, come psicolog* e come appartenenti alla comunità LGBT+, a proporre iniziative condivise che agiscano sul clima in essere e ne riducano l’impatto negativo sulla qualità di vita. Nel farlo, possiamo ben condividere le parole di Miriam Towes: «Abbiamo pianto coi perdenti, contavamo sul loro esempio, che ci indicassero come fare, e distoglievamo lo sguardo dai vincitori, non ci interessavano minimamente».
Immagine in evidenza di Evey Gloom
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